È difficile in momenti di catastrofi telluriche simili a quella che ha colpito Haiti inneggiare alla bellezza della natura, come fa il Salmo 103. Eppure anche la bellezza cristiana passa attraverso l’armonia del creato (vedi San Clemente I Papa). Il pittore Camille Corot «è stato il maggiore paesaggista dell’Ottocento» (Giulio Carlo Argan). Lo è stato davvero, il che dovrebbe accendere la curiosità di chi ama l’arte e ancora non lo conosce. Ma la curiosità per la pittura di paesaggio se non è spenta è sopita, almeno nel cuore di quel pubblico che se non tocca con mano viscere e sangue non prova emozione. Il lungo cammino di Corot (1797-1875) nella pittura di paesaggio, con varianti sostanziali fra le prime opere e quelle che dipinge dopo il 1850 circa, è illustrato in un’interessante mostra a Verona organizzata con il Museo del Louvre di Parigi, mostra che, nonostante la presenza di alcuni dei più celebri capolavori del pittore francese, avrebbe sortito un effetto più forte se non fosse stata concepita per soggetti, bensì in un percorso cronologico che avesse testimoniato la formazione di Corot al seguito del grande paesaggio classico di Poussin, gli esordi sotto la lente di Roma e della visione classica della natura, indi la svolta concomitante con un’interpretazione assolutamente personale e lirica dell’idillio, sino agli ultimi quadri, quando tutto si ricapitola nei ricordi del pittore, senza che si avverta il benché minimo cedimento di qualità. Parlare di idillio potrebbe far sorgere il sospetto di una cultura campestre, che evochi fantasie boscherecce, ma Corot non si abbandona mai alle vuote rappresentazioni di frasche frementi, di Silfidi abitatrici delle selve e di tutta la spensierata paccottiglia post arcadica di cui la letteratura dell’Ottocento e del primo Novecento rigurgita, a cominciare da Gabriele D’Annunzio.



In Corot non c’è nessuna pittura di sensazioni epidermiche che fa sbadigliare nel suo fasullo stormire di fronde, gorgogliare di ruscelli. Anche quando dipinge Orfeo che guida Euridice o Mattinata danza delle ninfe Corot conserva un tale rigore d’inquadrature prospettiche e un tale calibrare i contrappunti di luce ed ombra, da apparire essenzialmente classico. Nella mescolanza di mente-sguardo-sentimento si imprime innanzitutto il ricordo di Roma, dove aveva soggiornato per tre anni, una città che affiorerà sino agli ultimi giorni.



 

L’amore per Roma non è solo il lievito di un’ispirazione alla bellezza densa di storia, ma è anche il denominatore dell’energia contemplativa che dà vita ai paesaggi. In taluni casi l’esperienza italiana è il lievito della rappresentazione della figura umana e dei quadri di soggetto sacro, eseguiti su commissione per molte chiese di Francia, ma anche per se stesso. Ed è su questa particolare produzione sacra che la critica – guarda caso – è solita sorvolare. Invece vorrei soffermarmici, non tanto per rilanciare apologeticamente il Corot sacro, che è indubbiamente inferiore al Corot paesaggista, quanto per evitare ideologiche soluzioni di continuità tra una concezione religiosa della bellezza, che si custodisce nella natura e nella figura umana, e la concezione della bellezza che sta alla base della grande pittura sacra dell’Ottocento.



Di quadri d’argomento religioso nella mostra non ce ne sono, anche perché i paesaggi spesso sono di dimensioni contenute e quindi più trasportabili; tuttavia almeno uno dei pannelli dipinti nel 1855 nella chiesa di Ville-d’Avray l’avrei esposto per documentare anche questo aspetto meno noto dell’opera del grande maestro. È vero che nei soggetti sacri il timbro lirico che c’è nei paesaggi si fa più fermo, così nella rappresentazione della figura umana, ma la stupenda Donna con la perla (presente a Verona), dipinta tra il 1858 e il 1868, palpita di quella ammirazione per il fascino delle donne romane che, scrive Corot nel 1827, «restano sempre le più belle del mondo». La Donna indossa l’abito delle popolane sabine e ne possiede la classica bellezza.

Nelle sue braccia conserte risplende la regale compostezza della Velata di Raffaello, benché in Corot compaia un’impronta naturalistica impossibile in Raffaello. Nelle vedute di Roma già emerge un senso della natura che oserei dire religioso: si veda il Foro Romano visto dagli orti farnesiani al crepuscolo, con la luce che batte sui muri in modo tanto vibrante da «intenerire il core».

 

La luce va spegnendosi; sono gli ultimi bagliori di una giornata di primavera avanzata, in anni in cui il Ponentino spirava ancora. La luce è pervasa da un fremito, eppure è tesa. Le forme dei monumenti del Foro Romano si disegnano nel gioco delle ombre. Tutto è costruito per pennellate brevi e dense; i tagli di luce si scompongono e si ricompongono in piani ravvicinati, definiti geometricamente. Le ombre sono percorse da sfumature tonali; spalancano il campo visivo. Tutto è osservato sotto la spinta del sentimento, perché, come dice Corot, «il reale è solo un particolare dell’arte: il sentimento lo conclude». Ma il sentimento in lui è un moto governato, non arbitrario dell’animo. Non mi sorprende che Corot, tacciato di non essere un pittore colto, di passaggio in Svizzera nel 1855 confessasse ad alcuni amici che i suoi scrittori preferiti erano Pascal e Bossuet, il suo musicista prediletto Gluck. Pascal, Bossuet, Gluck: forse che nella piena maturità, e non soltanto sull’orlo della tomba, Corot si fosse decisamente avvicinato alla religione cattolica? Nel catalogo della mostra non se ne fa cenno; vale la pena proseguire nelle ricerche, ampliando il gran capitolo del cattolicesimo e dell’arte dell’Ottocento.

 

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