Per descrivere in modo più preciso il panorama del post anni ‘60 farò principalmente riferimento al mio Paese, l’Irlanda, ma la mia impressione è che il discorso si adatti alla maggioranza delle altre società europee e di lingua inglese.
Ci sono essenzialmente quattro generazioni implicate nella cultura lasciata in eredità dalla rivoluzione degli anni ‘60. La prima è quella dei “baby boomer”, i figli dell’immediato dopoguerra che, adottando i valori culturali degli anni ‘60, hanno guadagnato potere culturale e politico dagli anni ‘70 in poi. È la generazione che per prima ha risposto allo “svegliatevi” di Elvis, mettendo questo slogan al centro della rivoluzione studentesca del 1968.
La mia generazione, nata negli anni ’50, continuò nella sua scia, aderendo alla maggior parte delle idee della precedente generazione, ma rimanendo generalmente un po’ distaccata. Noi partecipammo ma, non essendo per lo più in posizioni autorevoli o di potere (eravamo troppo giovani e non avevamo preso parte alle prime ondate rivoluzionarie), finimmo per rimanere ai lati, osservando e riflettendo.
Comunque, la mia generazione continuò a proclamare quei valori, mentre le due successive, nate rispettivamente negli anni grosso modo ‘80 e ‘90, si ritirarono nell’ironia e nel distacco. In linea di massima, quelli nati dopo gli anni ‘60 hanno fatto molte buone cose durante il periodo di pace e prosperità continuato fino alla fine del ventesimo secolo, ma non sono stati molto presenti nella sfera pubblica, dando il loro meglio negli affari e nella sfera privata.
Anche quando sono entrati in politica o nell’industria dei media non sono riusciti in genere a farsi strada fino ai centri del potere o a proporre una visione alternativa di come si dovevano e si potevano fare le cose. In parte, perché le posizioni chiave erano già occupate da quelli più vecchi di loro, in parte perché le generazioni più giovani non avevano alcuna precisa idea su ciò che si doveva fare in campo culturale o politico, dove sembrava non esserci nessun spazio per visioni radicalmente diverse. Ne è derivato un distacco ironico che si esprimeva nella satira e nella nostalgia, ma che aveva le sue radici in un confuso idealismo incapace di trovare le modalità per esprimersi.
Uno dei caratteri più significativi della società creata dalla rivoluzione degli anni ‘60 è che gli atteggiamenti, le energie e le attività una volta giustamente considerate tipiche dei giovani, ora venivano fatte proprie da persone di mezza età o anche più vecchie, talvolta proprio da coloro contro i quali avrebbero dovuto teoricamente essere impiegate. Se la cultura dominante aveva raggiunto la massima espressione dell’idealismo era ovvio che ai giovani non rimanesse praticamente quasi nulla da dire.
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Tuttavia, l’idealismo dell’uomo è per definizione incapace di soddisfazione, essendo nel migliore dei casi uno sforzo diretto ad approssimare il bene, così questa distorsione ha dato luogo a una cultura incapace di accettare limiti alla libertà, definita come il perseguimento del desiderio nella sua più immediata forma. Conseguentemente, si rifiuta di ammettere che una libertà così definita possa avere limiti o che possa essere qualcosa di diverso dalla via ottimale e più corretta per la società umana.
Qui c’è un’interessante anomalia: se la generazione dei “baby boomers” è fanaticamente devota al suo concetto di libertà, le generazioni successive non lo sono. Queste ultime hanno goduto dell’esperienza di questa libertà, ma sono rimaste perplesse di fronte all’incapacità di dare risultati pienamente corrispondenti ai desideri del cuore dell’uomo e alla difficoltà culturale di riflettere su questo, a parte osservazioni occasionali sull’inevitabilità di infortuni e vittime in ogni tentativo di costruire una vita migliore per tutti. Neppure la morte di Elvis fu un segnale di allarme sulla possibilità che il suo “svegliatevi” non fosse un assoluto, ma solo il primo di una serie di passi verso una migliore comprensione dell’umana avventura.
In breve, alla rivoluzione degli anni ’60 è mancata la dialettica. Perciò è andata avanti fino al punto della sua logica disintegrazione, senza avere avuto seri avversari alla sua convinzione culturale che sia possibile opporsi alla vera natura dell’uomo. Per gran parte degli ultimi due decenni mi sono trovato appartenente a questa cultura e al contempo messo in difficoltà da essa. Istintivamente trovo la maggior parte delle sue idee attraenti e, per gran parte della mia vita, ho considerato le persone protagoniste di questa rivoluzione come le più interessanti, le più affascinanti, le più creative e le più divertenti. Di fronte alla scelta se accettare interamente la loro concezione del mondo o tornare al grigiore dell’epoca precedente, occorrerebbe essere folli per non abbracciare di tutto cuore il mondo diverso cui avevano dato inizio.
Eppure, rimanevo turbato dalle incoerenze delle loro ricette, dalla loro cecità verso gli errori nelle loro convinzioni e dal loro rifiuto di riconoscere la forza insita in alcuni dei valori alla cancellazione dei quali si erano dedicati. Il problema non è tanto nei valori che predicavano, quanto nella loro assoluta mancanza di volontà di riconoscere che il mondo non è iniziato nel 1968.
La speranza di superare questa impasse culturale non si fonda sui giovani o sui vecchi, ma sulle generazioni di mezzo, in particolare sulla generazione cui io stesso appartengo. Ho sempre pensato che la mia generazione, arrivata a rivoluzione già iniziata, ha potuto mantenere il sufficiente distacco così da rimanere immersa in quelle cultura percependone però debolezze e limiti. Ma nell’ultimo anno ho notato qualcosa di insolito attorno a me, in qualche modo collegato alla mia età cronologica.
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Quest’anno compirò 55 anni e la mia età coinciderà con l’anno della mia nascita. Non so se esiste un nome per questo fenomeno, ma so che negli ultimi mesi ho incontrato persone, soprattutto maschi (chissà se vuol dire qualcosa), nati nel mio stesso anno o giù di lì. Parlando con loro, ho notato una differenza rispetto a chi è più giovane o più vecchio: tendono a essere disadattati, come lo sono io, sono persone che non hanno mai veramente preso il mondo per quello che appariva, ma tuttavia vi si sono immersi completamente.
Mantengono un aspetto vagamente hippy, anche se la maggioranza di loro è riuscita a mantenere intatte le proprie facoltà mentali, e non sono facilmente catalogabili in termini di atteggiamenti o di posizionamento politico. Ciò che ci distingue dai rivoluzionari più vecchi è che noi amavamo la musica e vivevamo la libertà ma, non essendo coinvolti nel cuore del progetto, avevamo anche la possibilità di vedere quanto esso fosse andato fuori strada.
Conosciamo la libertà, avendone goduto quanto gli altri, e abbiamo amato Elvis, i Beatles, Hendrix, i Kennedy, Martin Luther King, e “odiato” Lyndon B. Johnson e Nixon, con lo stesso fervore di quelli più grandi di noi. Ma eravamo anche coscienti delle assurdità e delle contraddizioni; non avendo nessuna posta ideologica in gioco, ci interessavamo agli effetti che la libertà aveva su noi stessi ed eravamo meno timorosi dei padri fondatori nel riconoscere quando le promesse non venivano mantenute o si superavano i limiti. Abbiamo preso la rivoluzione con lo stesso zelo dei nostri predecessori, ma non avevamo la stessa posta in gioco, potevamo goderne senza assumerne l’esclusiva. Siamo quindi in una posizione migliore per descriverne le tare.
Definisco me e quelli della mia età “il club del 55” e sono arrivato alla conclusione che sia nostra responsabilità cancellare l’assolutismo e la miopia della rivoluzione degli anni ’60, perché possiamo vederne tutta la storia e capirne il significato. Su di noi ricade la responsabilità di essere estremamente onesti su quanto abbiamo incontrato, se non altro perché nessun altro lo è.