Costantino Esposito affronta le radici culturali del rapporto tra identità e differenze e la difficoltà odierna di pensare un “io” in relazione con l’altro. Terzo di tre articoli, dopo , e .

Ma in virtù di cosa noi possiamo capire il differenziarsi delle culture? Secondo la posizione citata nell’articolo precendente, lo possiamo fare solo sulla base del loro comune carattere di “finzione”: se tutte sono inganni o auto-inganni, allora le differenze saranno variazioni su questo unico tema. Tanto è necessario trovare un base comune per poter riconoscere, comprendere e anche giustificare le differenze, che se ne deve trovare una – l’unica possibile, a questo punto – nell’illusorietà, nuova “sostanza” di una natura umana de-sostanzializzata, residuo di universalità in negativo. Ma ci si potrebbe chiedere: l’illusorietà della finzione è il punto zero, non ulteriormente questionabile, dell’interpretazione? Oppure essa è a sua volta l’esito di un’interpretazione pre-giudiziale del fenomeno che si vuole comprendere? Se anche rinunciassimo – ritenendola pretestuosa o violenta – alla pretesa di giudicare un’identità culturale come più o meno “vera” o “giusta” rispetto ad un’altra (“occidente” rispetto a “oriente”, “cristianesimo” rispetto a “islam”, laicità rispetto a religiosità, modernizzazione globalizzata rispetto a tradizione di valori ecc.), non possiamo però rinunciare al riconoscimento che è vera ed è giusta la domanda stessa o l’esigenza strutturale che in ciascuna di esse mette in azione la produzione antropologica, anche se quest’ultima alla fine dovesse risultare una consapevole finzione. Per assumere consapevolmente una finzione come risposta al proprio bisogno di significato, bisogna pure che tale bisogno sia avvertito come un dato imprescindibile della nostra condizione di uomini. La “natura” umana è tale che sulla sua base l’uomo può essere chiamato l’animale che pone domande: e qui si radica quella simpatia tra le culture e le diverse identità che sta al fondo di tutte le loro possibili differenze.



Si noti inoltre che l’insistenza sul fatto che l’essere umano non ha l’identità di una sostanza naturale tra le altre, ma è piuttosto un processo di auto-realizzazione dinamica e storico-culturale di per sé non annulla affatto, né teoricamente né praticamente, l’ipotesi che tale dinamica venga mossa da un’interrogazione fondamentale, quella sul significato di sé, della propria comunità di appartenenza e sul mondo intero. E viceversa, la verità della natura o della condizione umana costituisce un livello che, lungi dall’essere predeterminato una volta per tutte, accade e si produce storicamente. Il domandare degli uomini concreti, in carne ed ossa, sempre determinati in precise condizioni spazio-temporali è il modo in cui ogni identità fa esperienza di un fenomeno comune, per quanto diversi o addirittura opposti possano essere i tentativi di risposta. Per questo il confronto tra le identità e le culture è possibile solo se è di continuo riaperto il confronto, all’interno di ogni identità e cultura di appartenenza, tra le domande di fondo e le risposte storiche, tenendo conto in particolare della pertinenza e del tasso di soddisfazione che le seconde possiedono rispetto alle prime. Il gioco non potrà che essere sempre aperto, mai definito assolutamente o per sempre, ma sempre riaffermante l’accadere del nesso tra la domanda di senso e la sua produzione.



Da questo punto di vista, responsabilità peculiare della scuola dovrà forse essere, sempre più marcatamente, quello di permettere di rintracciare nella propria esperienza i segni evidenti dell’esigenza del senso – cioè della domanda di essere e di esser-felice o compiuto – che permettano in primo luogo di mettere nuovamente in questione e verificare criticamente la congruenza o pertinenza delle risposte fornite dalla propria tradizione (cioè di mettere alla prova la propria identità, che sebbene ricevuta esige di essere scelta o rifiutata dal singolo io); in secondo luogo di individuare proprio a questo livello di verifica, presente come esigenza metodologica all’interno di ogni identità, il principio della comprensibilità di tutte le culture e quindi di tutte le differenze. Questo non certo per ridurre forzatamente le diversità ad una struttura imposta artificialmente dall’alto, ma per verificare le condizioni alle quali gli uomini possono comprendersi (e di fatto si comprendono) tra loro e possono tradurre (e di fatto traducono) una cultura in un’altra. Nella nostra esperienza noi apprendiamo, ogni giorno, che è possibile intendersi tra uomini di culture e identità differenti. Come mai? Cosa lo rende possibile? Evidentemente dev’esserci già presente, o all’opera, un fattore o dei fattori che lo permettano. Essi, secondo la mia ipotesiconsistono nella domanda di senso e nell’esigenza del vero, del giusto e del buono, non intesi come prospettive vaghe o come indicazioni di un’ulteriorità utopica, ma come funzioni operative del nostro modo di stare al mondo.



 

3) La terza questione riguarda infine l’idea, oggi assai diffusa, che per salvare le differenze si debba rinunciare a ogni pretesa di verità, e che di contro ogni affermazione di verità implichi inevitabilmente un “monismo” culturale. Anche in questo caso opera in maniera determinante il vocabolario che usiamo: se la verità coincide con qualcosa di assoluto, di intemporale e di fissato una volta per tutte, ciò che è invece temporale, storico, contingente non potrà che fuoriuscire dalla pretesa della verità di essere immutabile. Anche qui giunge per così dire alle sue estreme conseguenze tutta una storia del pensiero moderno, secondo la quale il rapporto tra l’io e la verità giunge alla sua massima problematizzazione. Nel senso che o la verità oggettiva del reale viene vista come un valore assoluto che eccede e trascende l’esperienza individuale dell’io, oppure essa è ridotta alle certezze costruite all’interno dell’io stesso. E nella cultura contemporanea questa difficoltà di rapporto tra l’io e il vero sembra essere giunta ad uno stato di crisi non più patologica ma fisiologica. L’io sembra che possa affermare se stesso, solo al prezzo di rinunciare al suo rapporto costitutivo con la verità; e al contrario, affermare la verità sembra essere possibile solo al prezzo del suo distacco dall’esperienza soggettiva dell’io. Considerate nei suoi esiti estremi, la prima chance è quella che porta tendenzialmente al relativismo nichilista, la seconda è quella che anima la prospettiva dell’assolutismo fondamentalista: un io senza verità e una verità senza io.

Ma la verità è tale che essa si presenta sempre nell’esperienza come un bisogno. Non voglio certo sostenere che la verità sia un prodotto culturale o artificiale delle nostre aspettative, ma che la nostra domanda del vero e del reale costituiscono il segno più evidente che noi siamo già in rapporto con essa. Da dove infatti nascerebbe il nostro desiderio di capire come stanno veramente le cose rispetto a noi, agli altri, al mondo intero? E si noti che, anche nei casi in cui noi non volessimo sapere e preferissimo restare sospesi nell’incertezza o racchiusi nell’immaginazione, lo faremmo per difenderci da una verità che temiamo, ma paradossalmente proprio questo attesterebbe che non possiamo vivere senza questo rapporto. Come una volta ha scritto Agostino d’Ippona, tutti gli uomini, senza eccezione alcuna, provano piacere nel vero, una sorta di gusto nel conoscere la verità (gaudium de veritate), e non vale l’obiezione che questo non lo si riscontrerebbe nei menzogneri, poiché anche quelli che ingannano gli altri almeno non vorrebbero mai essere ingannati loro stessi (cfr. Confessioni, libro 10, 23.33).

 

 

Ma come scopriamo questo rapporto strutturale al vero? In che misura esso è operativo nel nostro io? Solo in un confronto serrato con i dati della realtà, sia quella naturale che quella culturale. Solo in tale confronto il vero – cioè il senso oggettivo, ossia la ratio ­– può essere scoperto e messo alla prova: non inventato, costruito o imposto da noi (che è il rischio permanente dell’ideologia), ma accolto e ripensato come un significato portato dalla realtà stessa. Anche a questo proposito può aiutarci Agostino, il quale afferma, sempre nelle Confessioni (libro 10, 6.10) che la realtà ci parla soprattutto attraverso la sua «bellezza» (species), che per l’Ipponate non è un mero valore estetico, bensì la scoperta di un ordine, di un’armonia o di un logos, cioè della ragione profonda per cui le cose ci sono. Solo che, questa bellezza «non parla a tutti nella stessa maniera», o meglio: tutti la vedono, ma non tutti la colgono. Possono coglierla solo coloro che sanno fare domande (homines autem possunt interrogare), e cioè che sanno domandare con giudizio. Questa iudex ratio, come la chiama acutamente Agostino, opera come un continuo paragone in coloro che «accolgono la voce ricevuta dall’esterno e la confrontano con la verità che è presente in loro stessi».

E se uno dei compiti più urgenti, ma anche più affascinanti, della scuola fosse quello di educare a cercare il vero riconoscendolo attraverso la bellezza della realtà? L’esperienza della bellezza (di cui naturalmente parlo qui non come l’oggetto di una specifica disciplina estetica, ma come la percezione della presenza di un significato di me e delle cose) coinvolge in maniera impressionante e totalizzante il nostro io, ma al tempo stesso essa non può mai essere semplicemente prodotta o pianificata da noi. Accade sorprendendoci, ma nel suo accadere accende il nostro vero bisogno. Il bello è per così dire la conferma più eclatante che solo quando si incontra una risposta alla nostra domanda di significato, tale domanda comincia effettivamente ad essere. Forse è proprio in questa esigenza del vero e del reale, così come essa si ridesta nell’esperienza della bellezza, che noi potremo trovare una traccia forse inedita ma certamente provocante per affrontare il problema del rapporto tra identità e differenze in una prospettiva interculturale. In questo linguaggio, infatti, si realizza l’incredibile: che si possa non appena tollerare l’altro da noi, né includerlo nei nostri schemi, ma riconoscerlo come ciò di cui noi abbiamo bisogno per essere veramente noi stessi.