C’è una piazza a Milano che in queste settimane ha cambiato faccia. È una piazza bella, ben disegnata come si sapeva ben disegnare negli anni ’30 del ’900, dalla forma quadrata, aperta da un palazzo di Emilio Lancia e chiusa sul fondale dal Palazzo che un tempo ospitava le grida della Borsa, progettato da Paolo Mezzanotte. Da qualche settimana al centro di quella piazza, silenziosa ed emarginata dai grandi flussi di popolo che invade abitualmente il centro della città, c’è un fattore nuovo. Un grande basamento sul quale Maurizio Cattelan ha posizionato la sua scultura che tanto ha fatto discutere, per il gesto che rappresenterebbe: una mano con il dito medio alzato. La piazza sembra essere rinata: un via vai di persone, giovani in particolare, che non si limitano a curiosare e guardare a testa in su, ma si fermano e stazionano sui gradini di palazzo Mezzanotte, quasi lo sentissero come uno spazio “loro”.
In effetti, l’opera di Cattelan è affascinante sotto tutti i profili. L’artista ha dimostrato di saper governare e rispettare lo spazio bellissimo in cui ha avuto l’opportunità di inserirsi. Il basamento è grande e solenne secondo lo stile dell’architettura degli anni 30, e riprende lo stesso materiale (il travertino) del palazzo che troneggia sul fondale della piazza. Insomma fa da legante. Sopra il basamento, cioè a una decina di metri di altezza, Cattelan ha posizionato la grande mano di marmo bianchissimo, che si stacca nettamente dal color crema della pietra su cui poggia e va a stagliarsi contro il cielo.
Sulle interpretazioni del gesto che questa mano rappresenta si è detto tantissimo, e l’artista, con la furbizia mediatica che ben gli conosciamo, ha lasciato che le voci si gonfiassero per creare il caso. Ma se guardiamo bene l’opera vediamo che qualcosa non torna. Ce ne si accorge subito, appena ci si infila nel grande arcone che dà accesso alla piazza: il “gestaccio” di Cattelan non è affatto rivolto verso il palazzo della Borsa che sta alle spalle, ma semmai è rivolto verso di noi che arriviamo. In secondo luogo, il messaggio provocatorio non è certamente la prima cosa che colpisce. Piuttosto si resta spiazzati dalla energia classica di quella mano che riprende il modello straordinario della mano di Costantino, resto di un gigantesco monumento romano conservato ai Capitolini di Roma.
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Ma soprattutto si resta colpiti più che da quel dito alzato, dalle altre quattro dita mozzate. Sono come un grido soffocato, una ferita inferta di cui non capiamo l’origine, ma che sentiamo aver a che fare con le ferite che ciascuno si porta. Poi c’è il famoso dito, che svetta e di cui si percepisce innanzitutto proprio questo senso di verticalità tesa. L’aspetto insolente del gesto, francamente, resta in secondo piano (tant’è vero che chi si era preoccupato e aveva proposto di tenere l’opera solo una settimana, ha fatto marcia indietro). Il dito sembra esprimere piuttosto un’aspirazione, una voglia di riscatto, un desiderio di uscire dalla gabbia dei desideri obbligati.
Comunque venga interpretata, quest’opera di Cattelan è un’opera piena di energia contemporanea. Un’opera di una forza iconica impressionante, che arriva con le semplicità propria delle grandi opere al nostro cervello e al nostro cuore.
Per questo sono convinto che la mano di Cattelan non debba andare più via da quella piazza. Che debba restare a Milano, perché può esserne addirittura un simbolo, ironico, provocatorio, ma anche capace di una carica civile. Perché è un legante suggestivo tra due secoli, che oggi viviamo come del tutto sconnessi tra loro. Teniamocela dunque. Anche per evitare l’umiliazione di vederla riapparire su un’altra piazza del globo…
Ci vuole una decisione di coraggio. Questa città ne ha bisogno e se la merita.
PS: Ai tanti che non saranno d’accordo, raccomando solo una cosa: andate a vedere. Non restate ostaggio del sentito dire o dei preconcetti.