Ha vinto il Nobel per «la sua cartografia delle strutture del potere e per la sua acuta immagine della resistenza, della rivolta e della sconfitta dell’individuo». Sono queste le motivazioni con cui l’Accademia di Svezia ha assegnato il premio Nobel per la letteratura 2010 a Mario Vargas Losa. L’autore peruviano, nato ad Arequipa 74 anni fa, ha ricevuto la notizia mentre si trovava a New York e ha confidato di non credervi fino a che non fosse stata confermata dagli organi di stampa. Un’opera, quella di Vargas Losa, letta e apprezzata in tutto il mondo. Questa volta, si può dire, critica e “pubblico” sono stati finalmente d’accordo. Dell’autore de La festa del caprone, La storia di Mayta, Conversazione nella cattedrale il sussidiario ha parlato con Dante José Liano, docente di Lingua e letterature ispano-americane nell’Università Cattolica di Milano. «Sono soddisfatto di questo Nobel – dice Liano – perché premia una letteratura, quella sudamericana, che è ancora molto viva e offre uno sguardo su un continente che ha tanto da dire e da imparare».



Professore, si aspettava che Vargas Llosa ottenesse il massimo riconoscimento?

«Sì e credo che lo meriti pienamente, perché insieme a García Márquez è senz’altro uno dei maggiori scrittori contemporanei e non solo dell’America latina. È un’assegnazione che rientrava nella logica del Nobel. Il premio sarebbe potuto andare anche a Carlos Fuentes, un altro grande della letteratura ispanoamericana».



Sta dicendo che lo avrebbe meritato più di Vargas Llosa?

«No, metto solamente Fuentes insieme a Vargas Llosa e García Márquez, coi quali forma un gruppo di pari livello. L’assegnazione del Nobel ad uno dei primi due era ipotizzabile in egual misura. Non concordo invece del tutto con la motivazione, che mi sembra un po’ riduttiva o quantomeno parziale perché credo che l’opera variegata di Vargas Llosa abbracci un universo molto più vasto. Egli ha saputo scandagliare la profondità della natura umana, toccando i suoi meccanismi più interni e complessi».

C’è dunque un Vargas Llosa più profondo di quello che emerge dalle motivazioni del premio?



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«Secondo me sì. Pensiamo alla sua capacità di riflessione sul fenomeno letterario, alla sua produzione scientifica su diversi autori, a cominciare dal suo amico-nemico García Márquez a cui ha dedicato un poderoso volume, fondamentale per comprenderlo. Non dimentichiamo che Vargas Llosa ha scritto anche di Gustave Flaubert».

 

Lei ha detto che Vargas Llosa ha saputo scandagliare il cuore dell’uomo. Com’è l’uomo che ci restituisce lo scritture peruviano?

 

«Molto complesso e variegato, e in questo risponde alla caratteristica di tutta la sua produzione. Direi anzi che una ricerca continua nella profondità dell’umano è la sua costante. Penso a La storia di Mayta, in cui conduce il lettore nelle motivazioni più intime di un giovane che abbraccia l’ideologia di sinistra; o a quelle parti in cui va a cercare il lato umoristico delle situazioni e dei personaggi. Perché ci sono anche queste; in misura minore, ma ci sono».

 

In che cosa il nuovo Nobel è tipicamente sudamericano, e in che cosa è universale?

 

«È universale in quanto è profondamente sudamericano. Ricorda quella frase di Tolstoj? Se vuoi raccontare il mondo, racconta il tuo villaggio. Direi che Vargas Llosa ce l’ha fatta. Raccontando il Perù, o la repubblica dominicana, o realtà ancora più ristrette, riesce a toccare la coscienza di quasi ogni uomo».

 

Ha anche tentato una carriera politica. Nel ’90 si candidò alle elezioni presidenziali del Perù contro l’autoritario Alberto Fujimori, ma venne sconfitto.

 

«Un fallimento che gli ha permesso di continuare a scrivere. Non è stato un gran politico. Ovviamente, essendo anch’io un uomo di lettere, posso sbagliarmi, anche se se credo che abbia sbagliato di più Vargas Llosa».

 

Quanto l’incontro con Jean Paul Sartre lo ha condizionato?

 

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«Vargas Llosa legge Sartre tra i venti e i venticinque anni, quando studia all’università di San Marcos di Lima. Più che nel suo successivo soggiorno parigino è a quel tempo che segue il filosofo esistenzialista. Proprio Sartre può averlo portato ad abbracciare la dottrina marxista, che poi però abbandonerà».

 

Lo scrittore è molto letto. È amato anche dalla critica?

 

«Sì, direi che il riconoscimento dei suoi meriti letterari non è in discussione. Qualcuno sostiene che quando ha cambiato ideologia politica c’è stato un decadimento della sua letteratura, ma non credo che sia così. Quando uno riesce a scrivere un grande romanzo come La festa del caprone dopo esser passato da sinistra a destra, conferma di essere rimasto quello che è, cioè un grandissimo narratore».

 

Qual è, professore, il “suo” Vargas Llosa e quale opera consiglierebbe al lettore che vuole conoscerlo?

 

«Il primo, quello dei romanzi della gioventù, che secondo il mio umile parere sono degli assoluti capolavori. La città e i cani è un romanzo che non ha difetti; anche Conversazione nella cattedrale o La casa verde sono romanzi quasi perfetti, scritti con il desiderio e la rabbia palpabile di cercare quello che è più profondo nella società e nell’anima umana. Sono libri che lasciano il lettore completamente soddisfatto. È naturalmente un’opinione personale».

 

Perché l’Accademia di Svezia ha fatto la scelta giusta?

 

«Perché premia una letteratura, quella sudamericana, che è ancora molto viva e ha molte cosa da dire, anche alla luce di quello che è attualmente l’America latina. È un continente dove succedono cose nuove, dove si stanno sperimentando nuove forme di politica, di società, di convivenza, dove emergono nuove realtà culturali ed etniche. E il premio a Vargas Llosa offre uno sguardo su un continente che ha tante cose da dire e da imparare».