Caro direttore,
ho letto l’interessante testimonianza di Pietro Barcellona, che rappresenta una grande provocazione culturale oltre che un importante stimolo di riflessione storica.
Il mio è un Sessantotto vissuto a Torino da giovane ricercatore presso una facoltà umanistica. Militavo nelle fila di un movimento di estrema sinistra, fortemente polemico col Pci, i Quaderni Rossi di Raniero Panzieri (un intellettuale e dirigente socialista), ma avrei concluso la mia parabola politica iscrivendomi a questo partito che ci aveva sbeffeggiato come “terribilmente rivoluzionari” quando non ci aveva associato a mestatori di torbido.
La calunnia e la diffamazione, quando non la consegna al nemico, è stato sempre un tratto costitutivo dei comunisti, in tutte le epoche e latitudini, ma anche, temo, di chi ha cambiato nome alla vecchia identità. Dopo un processo che fece qualche clamore, in cui mi venne sospesa la tessera e alcuni successivi tentativi di cacciarmi, me ne andai e aderii per qualche tempo al Psi di Bettino Craxi.
Non so se sia possibile paragonare la generazione del Sessantotto e quella odierna, e i rispettivi ceti politici. Dalla mia esperienza ho ricavato la testimonianza che l’estremismo (e l’anticomunismo) non necessariamente approdino, e quindi si consumino, nella lotta armata. Mi pare che nessuno dei Quaderni Rossi sia finito impigliato nell’avventura del terrorismo.
Non abbiamo mai affrontato il problema della guerra civile, e quindi non c’è stato un pronunciamento del nostro gruppo sul rapporto tra lotta di classe e violenza. Ma da Marx a Lenin a Mao, e dalle esperienze della conquista del potere in Russia e in Cina,come dalle guerriglie in America latina e in diversi paesi africani, avevamo tratto la convinzione che non poteva essere esclusa, fosse anzi inevitabile.
Credo sia stato un caso che il terrorismo non abbia seminato nelle nostre file. Il sistema politico allora dominato dalla Dc ci appariva particolarmente gommoso, impermeabile, e lo Stato come un coacervo di istituzioni che era la finzione di un regime liberaldemocratico, cioè di uno stato di diritto. Non escludevamo che potesse piegarsi ad una torsione autoritaria e repressiva.
In realtà, noi non avevamo pregiudizi sulla riformabilità di esso. Seguivamo attentamente, dentro il Psi, le posizioni di Riccardo Lombardi, per un verso e di Vittorio Foa, dall’altro, ma anche di alcuni settori della Confindustria, ritenendo che il “sistema” avrebbe potuto incorporare dosi avanzate di trasformazioni, cioè di riforme anche radicali.
Eravamo anni luce lontani dalle tesi e dalle analisi della Terza Internazionale. Nutrivamo, infatti, una concezione non stagnazionista e tanto meno catastrofista del capitalismo. Per sopravvivere e, anzi, garantire meglio il suo comando, avrebbe finito per conciliarsi con le proposte altamente riformatrici di Lombardi e della stessa sinistra socialista.
La compatibilità del funzionamento del capitalismo con le riforme ci aveva indotto a combattere il Psi e il Pci. Pensavamo che essi fossero gli strumenti di questa politica di spostamento degli equilibri sociali e dei rapporti di forza ad un livello più elevato. Il controllo capitalistico sul proletariato, secondo la nostra analisi, sarebbe avvenuto coinvolgendo, come vittime consenzienti, i due partiti della sinistra, in un processo di ristrutturazione.
Fu questa la ragione del nostro anticomunismo, dal momento che consideravamo la sinistra italiana una variante della socialdemocrazia e quindi una fonte di pericolo, e di inquinamento, oltreché di resistenza, ad una prospettiva di rottura del sistema e di costruzione di una prospettiva socialista.
Il bilancio di questa stagione politica è stato che l’Italia non ha avuto né riforme né rivoluzione. Anzi ha subìto quanto spesso segue alla demonizzazione e al venire meno di queste due soluzioni, cioè un periodo di inasprimento del conflitto politico e sociale che ha preso il volto della lotta armata. Una parte della militanza politica di sinistra è finita nell’apologia e nella pratica del terrorismo. Sono i cosiddetti anni di piombo.
La sinistra non ha saputo riflettere sul fatto che questi anni, dominati da delitti, sopraffazioni, violenze inaudite, non hanno avuto per protagonisti figli di nessuno o nemici del popolo. Essi sono il canto del cigno della politica del Psi, del Psiup e del Pci.Una politica ambigua, confusa, inconcludente che non ha scelto di abbracciare coerentemente la strada delle riforme possibili, all’interno dello stato liberale e del regime capitalistico di produzione, né quello di rovesciarlo aprendo una prospettiva rivoluzionaria, anche diversa da quella del socialismo reale (ripugnante) di Mosca, Pechino, L’Avana.
Migliaia di giovani, delusi, hanno finito per abbandonarsi all’illusione di porre fine al capitalismo e allo stato borghese decapitandone i dirigenti, che erano alla testa del sistema politico o delle imprese, o passando per le armi sindacalisti, poliziotti e carabinieri. Questa mattanza aveva dietro la disperazione che cede il passo al terrore. Ma non la si può liquidare come una coda anarchica, un soprassalto euforico irrazionale, comunque un episodio circoscritto, perché aveva dietro di sé l’essiccarsi di ogni speranza di cambiamento anche per l’incoerenza e la timidezza con cui Psi e Pci hanno sostenuto le riforme avvenute.
Non sono paragonabili a quelle che hanno disegnato il welfare state dei paesi scandinavi, della Germania e anche della Francia. Ma non è vero che delle riforme in Italia non ci siano state. Penso a quanto avvenuto nelle università, nel sistema sanitario, previdenziale, delle abitazioni ecc., per non parlare del (quasi) controllo sugli investimenti conquistato dal sindacato in qualche settore indu-striale.
Purtroppo queste riforme hanno avuto la forza di bloccare il funzionamento del sistema, sottoponendolo ad una catena vincolistica di lacci e lacciuoli ed estendendo l’area del controllo statale. In questo modo si espandeva la sua influenza e la si poteva utilizzare, come alla fine avvenne, per una politica di scambi e compensazioni corporative.
Il riformismo italiano non ha corrisposto, come in altri paesi europei, ad un disegno di qualche organicità. Non si trattava di abbassare, e tantomeno abolire, il conflitto sociale, ma di regolarlo in maniera da indurre le imprese ad aggiornamenti, ristrutturazioni, innovazioni tecnologiche e produttive continue. E contestualmente far uscire il sindacato e i partiti da una politica meramente rivendicativa, assistenziale e corporativa qual è sempre stata.
Purtroppo, la persistenza della cultura leninista nella sinistra italiana è stata declinata assumendo l’impresa e l’imprenditore come un nemico da battere e criminalizzare. Il capitalismo è stato vissuto come l’incarnazione del demonio, e fare profitti una sorta di reato. Pertanto, un passaggio decisivo come la collaborazione tra le imprese e la scuola (non solo l’università) per rendere l’insegnamento consapevole dei bisogni del sistema economico, e far capire che il mercato vive di competitività (che esige una concentrazione massiccia di sforzi e saperi) e il lavoro di produttività, non è stato possibile.
Nell’informazione e nella comunicazione hanno prevalso i poteri di veto dei comitati di redazione, e l’assenza di ogni inventiva per dare alla sinistra qualche quotidiano, rivista, rete televisiva che ne mostrasse la cultura di governo. Lo spettacolo offerto è stato, e continua ad essere, la querimonia e il rampogniamo come mostra la paranoia nei confronti di Berlusconi. nello stesso momento invece Confindustria trasformava Il Sole-24 Ore in un grande organo europeo e si muniva di radio e televisioni in grado di sfidare sia il sistema pubblico sia quello di Mediaset, alla quale si deve la grande rivoluzione della televisione commerciale.
La sinistra è stata, ed è, parte, cioè causa e non solo effetto, della disgregazione del paese. A corroderne la fibra è il prevalere delle supplenza, cioè della sostituzione delle funzioni da parte di corpi che non ne avrebbero titolo. È il caso macroscopico della magistratura, che esercita ormai da decenni compiti politici che non le spettano grazie alla copertura, se non alla delega, ricevuta dal Pci.
Non potendo assumere responsabilità di governo dirette per la mancanza di un consenso elettorale adeguato e per il legame organico con una potenza straniera ostile, e non solo estranea, all’alleanza atlantica, il principale partito della sinistra non ha avuto scrupolo a servirsi del sindacato dei magistrati per delegittimare i propri avversari, si trattasse di partiti o di imprenditori (è il caso di Berlusconi). Lo ha fatto mettendoli alla sbarra, cioè trascinandoli in una catena infinita (e persecutoria) di contenziosi giudiziari.
Dalla crisi della sinistra, come da quella Dc e dei socialisti, si è usciti con una sorta di populismo che vede trionfare il carisma personale sulle macchine politiche, la personalizzazione del potere, un permanente conflitto istituzionale, forme spurie di alleanze, la progressiva alienazione di grandi settori popolari dalla politica intesa come partecipazione e militanza.
Sono morte o venute meno le vecchie forme formate dai partiti della Prima repubblica, ma è arduo dire che siano state sostituite da altre. Comitati di quartiere, movimenti associativi spontanei, iniziative di gruppi di cittadini non hanno spazio né stimoli a formarsi anche per via del sistema elettorale, che ha centralizzato le scelte dei candidati affidandoli ad un manipolo di capi-partito.
Concependo il potere come una fortezza da espugnare, la cultura politica del Sessantotto ha trascurato l’importanza della disseminazione molecolare del potere, e quindi della necessità di stabilire un rapporto con i bisogni sociali che non fosse la tradizionale arma della mediazione e del compromesso.
Straordinariamente importante è stata la lotta per la liberazione delle donne, il loro riscatto. Ma la sconfitta è stata la più cocente. Chi guarda la televisione vede trionfare il degrado assoluto con le ragazze ridotte a cariatidi di sesso, semplici macchine di seduzione.
Bisognava leggere meno Lenin e più Tocqueville, meno Marx e più Adam Smith, meno Gramsci e più Schumpeter. Perciò la formazione delle nuove generazioni passa attraverso una massiccia politica scolastica, di investimenti in cultura e ricerca, di riconsiderazione del lavoro non come luogo solo dell’antagonismo di classe, ma della competizione e del conflitto. Com’è nella tradizione liberale degli autori che ho prima citato.
Il sessantottismo non ci serve più. Non ha saputo andare oltre la retorica della lotta contro l’autoritarismo. È stata un’ulteriore denuncia dei suoi misfatti, non una risposta alternativa se non nella sua dimensione utopica. Riecheggiava quella del marxismo teorico che, come ci ha insegnato Norberto Bobbio, non ha avuto alcun interesse ad elaborare una teoria dello Stato, cioè della divisione dei poteri, della loro conquista e gestione. Nondimeno ha mostrato un esito sorprendente: la sinistra antifascista è stata statolatrica non meno del fascismo. Un monito da tenere ben presente nel tempo in cui viviamo.