«Tolstoj non si può ignorare. Bisognerebbe fare coi giovani quel che faceva lui stesso con gli studenti contadini della sua scuola di Jasnaja Poljana: stabilire l’elenco delle letture che non possono mancare. E Tolstoj oggi dovrebbe essere ancora tra queste». La pensa così Serena Vitale, ordinario di lingua e letteratura russa nell’Università Cattolica di Milano, traduttrice e scrittrice. «Dostoevskij, però, è più moderno di lui».
Serena Vitale, nel panorama delle celebrazioni tolstojane c’è stato qualche evento o pubblicazione che ritiene significativi?
«Direi che non ho visto niente di particolare, se escludiamo le ristampe de La fuga di Tolstoj di Alberto Cavallari, e di Tolstoj è morto di Vladimir Pozner. È il solito problema di questi anniversari, che restano sempre occasioni un po’ troppo “occasionali” per aggiungere qualcosa di diverso da una serie di piccoli, sia pur apprezzabili corollari. Il lavoro di Viktor Sklovski mi è sempre parso bello e interessante, ma non conosco trattazioni che in una sola monografia siano riuscite a rendere conto di tutta la vastità epica e la grandiosità della narrativa tolstojana».
Mostri sacri come Lev Tolstoj parlano sempre…
«Ogni momento parlano alla nostra coscienza, per questo non c’è bisogno di aspettare le ricorrenze. Però gli anniversari servono almeno a ricordare l’esistenza di questi grandi, a chi non li avesse ancora letti».
Perché consiglierebbe ad un ragazzo di leggere Tolstoj oggi, con l’abisso che separa la nostra mentalità da quella del grande autore russo?
«Vede, Tolstoj è uno scrittore epico in tutti i sensi, non polifonico come Dostoevskij, ma non per questo meno grandioso. Perché consigliarlo? Ma perché non leggere Tostoj è come ignorare Sant’Agostino, Dickens, Cervantes e gli altri grandi che hanno creato la nostra sensibilità e la nostra spiritualità. Farei di Tolstoj una lettura obbligata nei licei, magari espungendo alcune parti che possono essere complicate; oppure, cominciando da letture più brevi, visto che oggi il problema della lunghezza appare insuperabile. Lo vedo nell’esperienza quotidiana degli studenti: le proporzioni spaventano. In un’epoca in cui la brevità e la comprensione immediata sono sopra ogni altra cosa, Tolstoj chiede un altro approccio».
Da dove consiglierebbe di cominciare?
«Ci sono capolavori straordinari, come La morte di Ivan Il’ič, che andrebbero adottati. Capisco che un libro come quello tocchi un tema poco gradito all’umanità di oggi, come la morte, ma il racconto di come il protagonista, una persona modesta, banale, ordinaria e di poca spiritualità, riesca a prendere coscienza e vivere la morte, fa luce su tutta la spiritualità moderna. Bisognerebbe fare coi giovani quel che faceva lo stesso Tolstoj con gli studenti contadini della sua scuola di Jasnaja Poljana, stabilire l’elenco delle letture che non possono mancare. E Tolstoj oggi dovrebbe essere ancora tra queste».
Ha detto che oggi il problema della lunghezza è un ostacolo quasi insormontabile. Come questo condiziona la lettura di Tolstoj?
«Distinguiamo tra scrittori e pubblico. Guardavo l’altro giorno con gli studenti la classifica stilata negli Stati Uniti degli scrittori ritenuti “indispensabili”. Non c’è Dostoevskij, ma c’è sempre Tolstoj. Dunque per gli scrittori e i critici rimane un punto fermo non aggirabile. È il pubblico dei giovani quello che mi spaventa di più. L’altro giorno mi sono sentita dire da una giovane studentessa che Anna Karenina non le era piaciuto perché le ricordava un po’ una soap opera. Un ottimo parametro di giudizio, non le pare? La grandezza di Tolstoj è sproporzionata a quella del nostro tempo, che mi sembra molto piccola».
Torniamo ai due grandi. Prima ha definito epico il romanzo di Tolstoj e polifonico quello di Dostoevskij.
«È una distinzione che viene da Michail Bachtin. Dostoevskij mette la propria voce di narratore democraticamente alla pari con quella dei protagonisti in scena. Nel suo romanzo epico invece è Tolstoj a dominare tutto il materiale, a vederlo dall’alto. A Dostoevskij serve la polifonia per mettere in campo le grandi ideologie, portarle allo scontro».
E secondo lei chi è più moderno?
«Non me lo faccia dire, perché è l’anniversario di Tolstoj… secondo me è più moderno Dostoevskij. Il quale è tutto ancora da scoprire, almeno in Russia, anche perché in epoca sovietica era quasi all’indice proprio per la sua sostanza religiosa, mentre Tolstoj era indicato – a torto peraltro – come un antesignano del socialismo reale. In Italia Dostoevskij lo abbiamo letto in pessime traduzioni, che non ci hanno permesso di afferrare bene la portata innovativa della sua narrativa; Toltoj invece, comunque lo si traduca, lascia sempre trasparire la sua grandezza».
Cosa pensa invece dell’ultimo Tolstoj, quello della religione senza Cristo e della scomunica da parte della Chiesa ortodossa?
«A differenza dei più, è un Tolstoj che io amo molto, in particolare Resurrezione. Naturalmente rimane sempre uno scrittore a tesi e perciò “tendenzioso”, ma questo non diminuisce la sua grandezza. Non è riuscito ad “uccidere” l’artista che c’è in lui nemmeno quando, nel suo famoso saggio, ha ripudiato l’arte, accusando tanti grandi di averci distrutto moralmente».
Ma qual è la religiosità di Tolstoj?
«È una continua ricerca, fatta in modo prometeico e nel rifiuto totale del dogma, di ripercorrere da solo le strade della credenza. Basti pensare che si era messo a studiare l’aramaico per decifrare da solo i testi sacri. Il suo fu un tentativo di riportare la religione, Cristo, in terra. Ma innanzitutto in noi. Tutto secondo Tolstoj contrastava con l’aspetto dogmatico della chiesa ortodossa».
C’è qualcuno che almeno in Russia nel ’900 ha raccolto la sua eredità?
«Assolutamente no. Non si può parlare di tolstojsmo. Si può forse pensare a Nabokov, si può forse prendere Pasternak e pensare all’ampia stella descrittiva del Dottor Živago, ma siamo comunque mille miglia lontani dalla grandezza di Tolstoj. Il ’900 è un secolo lacerato, in cui l’integrità e la circolarità della visione armonica del mondo che ebbe Tolstoj prima della conversione, e forse anche dopo, è ormai venuta a mancare».