A più di cinquanta anni dall’uscita del romanzo di Jack Kerouac On the Road (1957), colui che è stato considerato “il re dei Beats”, è d’obbligo domandarsi  quale siano stati i meriti ed i limiti, insomma l’eredità culturale e letteraria di questo movimento e se le opere dei massimi rappresentanti di questo movimento siano ancora stimolanti per un lettore contemporaneo.



I giovani d’oggi si riconoscono ancora nelle opere dei beats e soprattutto nel romanzo di Kerouac che divenne subito un best-seller e un “romanzo culto”?  Attraverso le loro pagine si può ancora  trovare una risposta ai  problemi che li angosciano e opprimono come lo è stato per i giovani di un’intera generazione? Una domanda a cui non è facile dare una risposta univoca, perché su di loro è pesata per anni l’accusa di avere popolarizzato uno stile di vita “anarchico” le cui caratteristiche erano il nomadismo, il sesso, la violenza e la droga. Innanzitutto a detta del critico anglosassone Christopher Gair, che recentemente ha scritto un interessante contributo su questo argomento (The Beat generation, a Oneworld Pubblications, 2008), On the Road di Kerouac, come gli altri testi dei componenti del movimento, hanno avuto parecchie ristampe e vengono ancora  letti  dal grosso pubblico.



D’altra parte in America proprio quei testi che suscitarono tanto scalpore e scandalo al loro apparire, ora vengono insegnati nelle università e sono  entrati nel canone della letteratura americana. Ci si potrebbe domandare se lo stesso avviene in Europa e sopratutto in Italia, dove, a mio parere, l’interesse per questo movimento è senz’altro meno vivo, anche se ci sono state recentemente riedizioni dell’opera di Kerouac.

Ciò sembra confermare il giudizio che Fernanda Pivano espresse a suo tempo nella sua introduzione all’edizione italiana de I sotterranei (1960) di Kerouac sull’americanità di questo movimento. La Beat Generation era un fenomeno autenticamente e tipicamente americano e la Pivano aggiungeva che sbagliavano i critici a volere trovare le sue radici in Europa in movimenti quali l’esistenzialismo, il dadaismo o l’espressionismo. Oggi a distanza di mezzo secolo si può con ragione affermare che il giudizio di Fernanda Pivano, il cui merito è stato quello di fare conoscere la generazione beat in Italia, era  appropriato,  perché partiva da un autentica conoscenza dell’humus culturale che vide la nascita  di  questo movimento.



Credo che per rispondere adeguatamente al mio quesito iniziale occorra tenere presente il momento storico in cui  il  movimento  beat ha visto la luce. Si tratta dell’America degli anni 50, un’America che era da poco uscita dalla seconda guerra mondiale e che stava vivendo il difficile e tremendo periodo della Guerra Fredda e del maccartismo. Jack Kerouac appartiene infatti a questa  prima ondata della beat generation definita “hot” per diversificarla dalla seconda “cold”. Nella narrativa di Kerouac traspare un’acuta critica nei confronti del materialismo e del consumismo della società americana, degli anni 50 da lui definita  ironicamente “the plastic fifties”. 

Critica ed ironia che nascondono una nostalgia per l’America precedente allo scoppio della seconda guerra mondiale: un passato che viene da Kerouac mitizzato, popolato da “uomini forti”, individui non soggetti al lavaggio dei cervelli a cui è sottoposto l’americano medio degli anni 50. Una generazione quella di Kerouac che aveva conosciuto gli orrori della seconda guerra mondiale e sopratutto era stata testimone della esplosione della bomba atomica. Questo spiega non solo l’antimilitarismo e il pacifismo della  Beat Generation, ma anche l’avversione di Kerouac per ogni forma di disciplina, il  suo disagio nevrotico, le sue speranze e disperazioni. Le sue rischiose vie di fuga offerte dall’alcool, dalla marijuana e dalla benzedrina rivelano un’ansia e un male di vivere che aumenta col tempo.

Il movimento beat non solo si è prolungato nel tempo, ma è da considerarsi eterogeneo avendo avuto al suo interno diverse tendenze. Per questo  bisogna  evitare generalizzazioni e tenere presenti le diverse personalità e formazioni culturali dei suoi componenti. Ne è un esempio la biografia di   Kerouac, figlio di emigrati franco-canadesi, che visse la sua infanzia e giovinezza a Lowell, città industriale  del Massachusetts, nell’ambito della comunità franco-canadese, poco integrata nella realtà americana. Come giustamente ha messo in evidenza Gerald Nicosia nella sua biografia su Kerouac (1986), queste sue radici spiegano l’atteggiamento d’amore-odio che egli nutrì nei confronti dell’America.

La sua posizione restò sempre quella di un individuo che guardò l’America da una posizione marginale. Come anche importante è la sua educazione cattolica, da cui non riuscì mai a liberarsi,  nonostante la sua vita movimentata, intensa e ricca di avventure di ogni tipo. Essa spiega sia il suo vivere il sesso con un continuo senso di colpa, di cui mai si liberò, sia  la  sua tendenza al misticismo come quando fu attratto dal buddismo e dalla filosofia Zen.

Si diceva all’inizio che la Beat Generation è un fenomeno tipicamente americano e questo emerge, ad esempio, dal modo in cui Kerouac riscrive, talvolta parodiandoli, alcuni temi trattati dai grandi scrittori  della tradizione letteraria americana Emerson, Thoreau, Whitman, Poe e Melville. On the Road si configura infatti come un romanzo epico, di iniziazione, in cui il tema del viaggio è dominante. Il viaggio diventa per il giovane protagonista Sal e per l’amico Dean (nella realtà Kerouac e Neal Cassady)  non solo un modo per conoscere la realtà americana nella sua multiforme complessità, ma anche per viverla, per esperirla nella sua pienezza.

Anche l’attenzione che Kerouac ha per i piccoli e insignificanti episodi della vita quotidiana è una caratteristica che si può ritrovare in uno scrittore come Williams Carlos Williams. Profondamente americana è infine la sua visione della realtà, mai astratta e intellettualistica, come poteva essere quella dei giovani esistenzialisti francesi (alla quale è stata abbastanza erroneamente accostata), ma fondata essenzialmente sulla fisicità e sulla corporeità.

Se rileggere oggi i romanzi di Kerouac significa rendersi conto che essi descrivono un’America che non c’è più e soprattutto uno stile di vita che per molti aspetti è diventato obsoleto e fuori moda,  vi è però un aspetto che, a mio avviso, rimane vitale. Si tratta della sua prosa, che Kerouac definì spontanea: una scrittura che doveva essere redatta senza avere il tempo di fermarsi per pensare. Lo scrittore doveva scrivere in uno stato di “semi trance” per fare emergere i pensieri, le sensazioni più profonde, in una parola il suo subconscio, senza lasciare il tempo di operare censure.

Una prosa sperimentale che si sforza di operare una fertile ibridazione con il jazz, soprattutto con il bepop di Charlie Parker. Come il bepop è caratterizzato dalla tecnica dell’improvvisazione e si discosta dalla melodia tradizionale, così la struttura stilistica di Kerouac si basa su una serie ininterrotta di variazioni sul tema fondamentale che fa da perno e sostegno a un periodo della frase. La scrittura di Kerouac si configura come una sorta di riscrittura in chiave jazzistica della tecnica joycsiana del flusso di coscienza  forse non a caso contemporanea delle sperimentazioni pittoriche “astratte” di Jackson Pollack.

Vorrei concludere con le lucide e consapevoli parole dello stesso Kerouac, prese dal suo decalogo della prosa spontanea: “Poiché il tempo è l’essenza della purezza del discorso, il linguaggio è un indisturbato flusso dalla mente di segrete idee-parole personali, un esprimere (come fanno i musicisti  di jazz) il soggetto dell’ immagine… non fate periodi che separino frasi-strutture già confuse arbitrariamente da falsi punti e virgole e da timide virgole per lo più inutili, ma servitevi di un energico spacco che separi il respiro retorico come il musicista di Jazz prende fiato tra le varie frasi suonate“.