Pietro Citati parla con il sussidiario del suo Leopardi. Nel silenzio della sua casa di Roma, seduto nel suo studio, il critico risponde paziente ad alcune delle tante, possibili domande che la sua ultima opera è in grado di suscitare. Accade così di riscoprire in una luce nuova quel che si credeva già di sapere di uno dei più grandi poeti di sempre, che Citati, seguendo Nietzsche, mette alla pari con Pindaro e Hölderlin. Un universo difficile da decifrare, quello leopardiano: «pieno di centri, perché in Leopardi non c’è un unico centro». È così che Citati ci restituisce un Leopardi visto attraverso la sua vita: come se l’unico modo per addentrarsi nel suo mondo fosse quello di ripercorrerne la complicata, affascinante, controversa esistenza.
Lei afferma, citando Pietro Giordani, che Leopardi fa «spavento». Perché?
«Fa spavento per la sua grandezza. Nietzsche diceva che nella storia del mondo sono tre i grandi poeti lirici: Pindaro, Hölderlin e Leopardi. Fa spavento per la sua molteplicità: non si sa mai quale sia il suo io. Ne ha moltissimi, e per accostarsi a Leopardi occorre comprendere questa pluralità di “io” in rapporto tra di loro. E fa spavento per la sua bellezza: secondo me non siamo ancora arrivati a comprendere appieno quale sia la bellezza di moltissime liriche dei Canti e di molte delle Operette morali».
Perché la luna, come lei osserva nel suo libro, non risponde a Leopardi?
«Il perché non lo sappiamo, possiamo solo dire che la luna non risponde. La luna è l’incarnazione delle illusioni, tema essenziale della poesia di Leopardi. È la figura che lui ama di più. Il pastore si domanda – o domanda a nome di Leopardi – quale sia la verità sulle cose, ma la risposta non viene data. Questo significa che nemmeno Leopardi dà una risposta alle nostre domande».
Lei definisce Leopardi come «un materialista che odia la materia». Può spiegare meglio questo giudizio?
«A partire dal 1823 tutto lo Zibaldone riconduce ogni aspetto della realtà, della vita e della psicologia umana, alla materia. Il materialismo del XVIII secolo è un’esaltazione della materia. Anch’egli riconduce tutto alla materia, ma la odia. Tutto ciò che è, dice ad un certo punto in modo eloquente, è male. Le cose buone sono soltanto le cose che non sono. Se tutto l’universo è materia, contro la materia Leopardi esalta l’irrealtà: le chimere, le ipotesi».
Se Leopardi «detesta la realtà», come lei ha detto anche in un’intervista a Repubblica dedicata al suo ultimo lavoro, prevale di più in lui il nichilismo o l’enfasi per il desiderio umano insoddisfatto e bisognoso di infinito?
«Non c’è nichilismo in Leopardi. C’è molto desiderio dell’infinito, ma questo desiderio è riconosciuto come impossibile: l’uomo non può raggiungere l’infinito. Già nella poesia L’Infinito c’è uno scacco, perché Leopardi crea nella mente gli spazi interminati, ma poi nasce la paura, e da essa il ritorno al mondo reale, al soffio del vento, e così via. La cosa più solida che c’è in Leopardi, quella più positiva, non è l’infinito, ma l’indefinito».
Tra gli autori che più hanno influito su Leopardi lei annovera Epitteto e Rousseau. In che senso?
«Epitteto spiega non tutto Leopardi, ma un preciso momento del suo pensiero; quello della rinuncia, della discrezione, dell’abolizione totale dalla mente del pensiero dell’infinito. Per Rousseau è molto più complicato, perché non sapremo mai esattamente che cosa Leopardi abbia letto di lui. Ma sia Giacomo che suo fratello Carlo citano un brano della Nouvelle Héloïse che esalta le chimere contro le cose che sono. Dunque il chimerico in Leopardi ha un fondamento in Rousseau, ma c’è una differenza profonda, perché in Rousseau l’infinito è una dilatazione verso l’esterno, verso il cielo, mentre in Leopardi esso nasce quando qualcosa preclude lo sguardo. Per creare l’infinito, nell’unica poesia in cui lo crea, Leopardi ha bisogno di chiudersi, di essere limitato, di avere la siepe che da tanta parte/ De l’ultimo orizzonte il guardo esclude. Solo attraverso la limitazione arriva all’illimitato».
Il diletto è un topos in Leopardi. È molto diverso in lui da come lo intendiamo noi?
«Non direi. Per Leopardi il “diletto” è il piacere, anche un piacere quotidiano e limitato. Lo è in primo luogo la gioia che ci dà la poesia: una gioia limitata e insieme suprema».
A scuola si studia che non vi fu sintonia tra Leopardi e Manzoni, ma lei è di un altro parere. Perché?
«Ci sono alcuni passi nelle lettere di Leopardi che parlano di Manzoni. Prima qualcuno gli dice che I Promessi sposi sono brutti, e lui registra questo parere come se fosse suo. Poi nel gabinetto Viesseux incontra Manzoni. Allora Leopardi non ha ancora letto I Promessi sposi, ma prova per Manzoni grande simpatia. In una lettera di qualche mese più tardi scrive che I Promessi sposi sono molto belli ma hanno dei “difetti”. Non sappiamo quali fossero i difetti di quell’opera secondo Leopardi».
Giulio Augusto Levi pone al centro della produzione leopardiana Alla sua donna. Che cosa ne pensa?
«È una poesia straordinaria, ma non direi che ne è al “centro”, proprio perché la poesia di Leopardi non ha uno ma molti centri. Uno è L’infinito, uno è Alla sua donna, un altro è Il risorgimento, una altro è A Silvia, un altro Le ricordanze, un altro Il pensiero dominante, un altro ancora Il tramonto della luna. La sua visione del mondo cambia “centro” continuamente».
Siamo ormai nel 150simo dell’unità di Italia. C’è un sentimento italiano in Leopardi?
«In lui non c’è un sentimento politico dell’unità d’Italia, ma un grandissimo amore per la cultura, la letteratura, la lingua italiana, che lui adora come una cosa assolutamente superiore. Molteplice, mobile, flessibile, essa è per lui la lingua ideale. Le due lingue che amava di più erano il greco e l’italiano, ma in fondo amava più l’italiano del greco».
E aveva ragione di individuare nell’italiano il fattore di maggior attaccamento e individualità del nostro popolo?
«Sono d’accordo, anche se questo non ha molta importanza. La lingua italiana è meravigliosa, è una lingua che vive, muore, rinasce e noi ancora oggi non l’abbiamo capita sino in fondo. In realtà l’unico autore della nostra letteratura che abbia veramente capito la lingua italiana è proprio Leopardi. E la sua è un’interpretazione della nostra lingua che purtroppo ci sta sfuggendo. La stiamo dimenticando».
In un suo articolo su Repubblica, parlando di tutt’altro, lei cita Leopardi. Come si fa a tener vivo, nel decadimento di oggi, «il primo uomo» di Leopardi, la nostra «anima infantile» capace di stupore?
«È la stessa cosa che Goethe chiama “natura originale”. Essa può essere tenuta in vita soltanto con la forza della nostra intelligenza e delle nostre sensazioni… È comunque un’impresa difficilissima. Fortunatamente la bellezza può aiutare questa continua ricerca».