Havel l’aveva già detto nel suo primo discorso di capodanno da primo presidente cecoslovacco democraticamente eletto (gennaio 1990): viviamo in un’epoca in cui i problemi dell’ambiente ci riguardano da vicino, ma “il peggio è che viviamo in un ambiente deteriorato moralmente”. Allora si riferiva all’eredità devastante del sistema totalitario, sia dal punto di vista ecologico che etico, un sistema che era stato assimilato e sostenuto dalle sue stesse vittime.
L’attenzione di Havel ai temi dell’ambiente non è nata ieri, ma non ha nulla a che vedere con soli che ridono o battaglie demagogiche: Havel intende l’ambiente come l’insieme delle relazioni tra esseri umani depositari di una cultura e l’oggettività in cui essi si muovono e della quale sono responsabili. Il drammaturgo ha esemplificato questo pensiero dandogli forma drammatica anche nella pièce Il risanamento (1987), dove un gruppo di architetti incaricato di ristrutturare un vecchio borgo si scontra con le varie anime dei progettisti e con la volontà della popolazione locale.
Inaugurando l’annuale appuntamento del Forum2000 (la fondazione e l’omonima conferenza che si tiene a Praga, ndr) tenutosi il mese scorso, e dedicato al “Mondo in cui vogliamo vivere”, Havel ha denunciato l’orgoglio della civiltà moderna che crede di poter fare a meno del senso del mistero. “Quando vado alla mia casetta di campagna”, ha detto l’ex presidente, quello che fino a poco tempo fa era chiaramente riconoscibile come città ora sta perdendo i suoi confini e la sua identità, per trasformarsi in un enorme agglomerato indistinto, senza vie e piazze ben definite, composto da “enormi centri commerciali, stazioni di servizio, giganteschi parcheggi, palazzoni destinati ad ospitare uffici e depositi di ogni tipo, e schiere di villette che sono apparentemente attigue ma allo stesso tempo disperatamente lontane”.
E in mezzo a tutto questo, a macchia di leopardo, si alternano zone di territorio che non sono nulla, né campi, né boschi né insediamenti umani. Ogni volta che si concede alle città di distruggere il paesaggio circostante per crearvi degli agglomerati che rendono la vita irriconoscibile, si scardina allo stesso tempo la rete delle comunità umane naturali, e sotto l’egida dell’omologazione internazionale si annullano le individualità e le identità. Alla fine di questo processo, “la collettività smisurata dei consumatori genera un nuovo tipo di solitudine”.
La causa di tutto questo – sostiene Havel – sta nel fatto che viviamo nella prima civiltà atea globalizzata, una civiltà che ha perso i suoi nessi con l’infinito e con l’eterno, e perciò preferisce il profitto immediato a quello a lungo termine. L’aspetto più pericoloso di questa civiltà atea è il suo orgoglio, che la rende irrispettosa verso il patrimonio trasmesso dalla natura e dai nostri antenati e che la fa sentire presuntuosamente onnisciente.
In questo modo, con il culto del profitto immediato e del progresso, “scompare il rispetto per il mistero e per l’incommensurabile, si perde il senso dell’infinito e dell’eterno, che fino a poco tempo fa costituivano i principali orizzonti delle nostre azioni. Abbiamo completamente dimenticato quello che le civiltà precedenti sapevano: che nulla è certo”.
Il drammaturgo sposta le sue riflessioni anche sulla recente crisi finanziaria, definendola un segnale istruttivo per il mondo contemporaneo, un monito contro la sicumera sproporzionata e l’orgoglio della civiltà moderna: l’azione umana non è totalmente prevedibile come credono molti inventori di teorie e concezioni economiche. E il dramma è che questi stessi sapientoni, invece di imparare la piccola lezione di umiltà da cui avrebbero dovuto capire che non tutto è sempre automaticamente concesso, pretendono di descrivere con lo stesso metodo le cause della crisi!
“Per secoli l’umanità ha vissuto in civiltà capaci di formare una cultura, dove gli insediamenti avevano un ordine naturale determinato da una sensibilità comunemente condivisa”, grazie alla quale l’ultimo fabbro medievale, quando gli chiedevano di forgiare un attrezzo, lo produceva secondo quello che oggi chiameremmo stile gotico, senza aver bisogno di un maestro o di un designer che gli insegnassero come fare. La nostra civiltà appare piuttosto come una delle tante conseguenze secondarie dell’orgoglio moderno, che crede di aver capito tutto e perciò di poter pianificare il mondo intero.
Secondo Havel, solo lo stupore e la consapevolezza che le cose non sono così ovvie può farci superare questo periodo oscuro. Questo stupore davanti al mistero del creato lo provoca a una serie di domande: qual è il significato di tutto ciò che esiste? È possibile il non-essere? “È possibile che le cose esistano perché noi possiamo stupirci, e che noi esistiamo perché ci sia qualcuno che si stupisca. Ma perché è necessario che vi sia qualcuno che si stupisce? E che alternativa c’è alla vita?”.
Un groviglio di interrogativi che agitano ancora l’animo di questo drammaturgo settantenne innamorato della vita, che non ha ancora smesso di cercare, e di stupire il suo pubblico, compreso quello delle multisale, perché da qualche mese si è messo in testa di fare del cinema…