In un’intervista di quasi vent’anni fa, don Giussani aveva indicato fra le responsabilità dei cristiani d’Occidente quella di aiutare la Russia a ritrovare la propria grande tradizione cristiana, calpestata e soffocata nei decenni del regime sovietico. Una responsabilità che nasceva per lui innanzitutto dalla gratitudine per il dono della testimonianza di una grande tradizione ecclesiale, una testimonianza irriducibile nonostante prove e ferite, simboleggiata dalle parole dello starec Giovanni, nella Leggenda dell’Anticristo di Solov’ëv: «Quello che noi abbiamo di più caro nel cristianesimo è Cristo stesso. Lui Stesso e tutto ciò che viene da Lui, giacché noi sappiamo che in Lui dimora corporalmente tutta la pienezza della Divinità».



Un cristianesimo – quello russo – che don Giussani vedeva mantenere intatta la propria dimensione di avvenimento, senza lasciarsi ridurre a ciò che denunciava Giovanni Paolo I: «Il vero dramma della Chiesa che ama definirsi moderna è il tentativo di correggere lo stupore dell’evento di Cristo con delle regole».



A vent’anni di distanza, ho letto la stessa gratitudine e umiltà nella presenza di Julián Carrón a Mosca, all’evento teologico per eccellenza della Chiesa ortodossa russa, a cui partecipano ogni due anni rappresentanti di tutte le Chiese ortodosse – il Convegno organizzato dalla Commissione teologica sinodale (se si vuole, il corrispettivo della nostra Congregazione per la dottrina della fede), presieduta dal metropolita Filaret.

Quest’anno il forum teologico, giunto ormai alla sesta edizione, ha scelto come titolo «La vita in Cristo. La morale cristiana, la tradizione ascetica della Chiesa e le sfide della contemporaneità». E quasi a sorpresa, alcuni mesi fa dagli organizzatori del Convegno è giunto un invito a don Julián Carrón, esplicitamente nella sua posizione di responsabile ultimo del Movimento di Comunione e Liberazione. Il 15 novembre, unico cattolico accanto a una serie di alti prelati delle Chiese ortodosse (a cominciare dal patriarca Kirill, che ha aperto i lavori, e dal metropolita Filaret), Carrón ha svolto una relazione intitolata La gloria di Dio è l’uomo vivente.



Una provocazione, in qualche modo, perché la maggior parte degli interventi susseguitisi fino a quel momento in sala tradiva la fatica di un cristianesimo trincerato sulle difensive, tutto teso ad arginare mode e mentalità laiciste, materialiste sempre più diffuse anche tra i cristiani. Non è un caso che, subito dopo la relazione di don Carrón, il prorettore di una delle più prestigiose facoltà teologiche della Russia gli abbia chiesto: «Padre, mi colpisce come per lei il cristianesimo sia una positività. Dunque il reale, per un cristiano, non è semplicemente un male da contrastare, ma un positivo da abbracciare?». O che il sito dell’Accademia teologica di Mosca (www.bogoslov.ru) gli abbia fatto una lunga videointervista trovando per l’occasione perfino un interprete dallo spagnolo.

In realtà, sia il tema scelto per il convegno, sia l’interesse per il metodo educativo di Comunione e Liberazione mettono a fuoco una preoccupazione centrale nella vita della Chiesa ortodossa più numerosa del mondo, la preoccupazione educativa e missionaria all’interno della società; una preoccupazione sovente inconfessata anche tra il clero (è più comodo cullarsi nei miti della «rinascita religiosa della Santa Rus’»), oppure fonte di smarrimento perché ci si sente inermi, senza un metodo per affrontarla. Se oggi all’interno dell’ortodossia russa c’è ancora chi manderebbe al rogo come eretiche tutte le pubblicazioni cattoliche, sta pericolosamente crescendo l’altro estremo, che consiste in un aperturismo indiscriminato ad ogni genere di innovazione e modernità.

Il forum di novembre è stato dunque un tentativo di porre un’alternativa, di offrire un’indicazione di cammino. Come ha richiamato nella sua prolusione il patriarca Kirill, sottolineando l’importanza di una teologia che si trasformi in strumento per la vita della Chiesa, «rendendo ragione del messaggio cristiano», in modo che la «vita in Cristo» non venga recepita dai nostri contemporanei come un «mito, un rituale o un’ideologia», ma come una «pienezza di vita», e d’altro canto non si corra il rischio di annacquare la portata della proposta cristiana in una versione «ridotta» di cristianesimo.

Attraverso l’invito a Carrón la storia di amicizia e di stima esistente da tanti anni a Mosca è diventata una testimonianza comune anche a livello istituzionale. Un fatto storico. Quasi in risposta all’appello di Kirill, nell’intervento di Carrón sono risuonate, tra l’altro, queste parole di Benedetto XVI: «L’idea genericamente diffusa è che i cristiani debbano osservare un’immensità di comandamenti, divieti, principi e simili, e che quindi il cristianesimo sia qualcosa di faticoso e oppressivo da vivere, e che si è più liberi senza tutti questi fardelli. Io invece vorrei mettere in chiaro che essere sostenuti da un grande Amore e da una rivelazione non è un fardello, ma sono ali».

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