Timor mortis conturbat me. Risale all’alto medioevo questo antico adagio liturgico, ripreso infinite volte dal poeti. Il timore della morte genera turbamento, quando non angoscia nella maggior parte degli uomini, sebbene tanti antichi lo considerino irrazionale. Lucrezio paragona la paura della morte al vano spavento che assale i bambini quando si trovano al buio: “Simili ai bambini che tremano nelle tenebre cieche, noi in piena luce spesso temiamo pericoli non più terribili di quelli che la loro immaginazione crede di vedere avvicinarsi nella notte”.



La consapevolezza dell’uomo che sa di dover finire genera una serie di comportamenti che i classici osservavano al loro tempo, ma che non sono di molto mutati nei secoli: l’instabilitas loci e la conseguente smania di cambiamenti esteriori, di dimora, di ambiente, la fretta che impedisce il riposo da una parte, dall’altra il taedium vitae, la noia e il facile rifugiarsi nel sonno. “Ognuno cerca di fuggire da se stesso ma, per lo più incapace di farlo, resta suo malgrado attaccato a quell’io che detesta, perché, malato, non afferra la causa del proprio male”. Il male per Lucrezio è l’ignoranza di come stiano veramente le cose, mentre la conoscenza è tanto più di capitale importanza, in quanto nella vita dell’uomo “è l’eternità in causa e non un’ora sola”.



Molto prima di Freud gli antichi hanno indicato il nesso tra la paura di finire e l’attaccamento al potere, tra il timore della morte e la licenza nelle abitudini sessuali. Ciò è particolarmente evidente nelle descrizioni dei tiranni, che amplificano dinamiche che sono comuni a tutti gli uomini, ma che in essi sono ingigantite, ossessive e perciò più facilmente osservabili. Diceva un vecchio monaco che chi riveste un ruolo che lo pone al di sopra degli altri è come una scimmia sull’albero: chi la guarda dal basso ne vede più facilmente le vergogne.

E’ famoso il ritratto che Tacito fa di Nerone, che non indugia a disfarsi di chiunque – fosse anche sua madre – possa offuscare il suo potere e che si abbandona a ogni sfrenatezza sessuale con liberte, concubine e prostitute. Lo storico segue con orrore la discesa di un principe che aveva suscitato qualche giustificata speranza verso le tenebre del dispotismo.



 

E’ pur vero che molti tra i potenti, affetti dalle brame più sfrenate, risultano poi di fatto impotenti, non generano figli, non lasciano eredi che ne proseguano l’opera. Perciò, più passano gli anni, più cresce attorno a loro il vuoto, più si ingigantisce il terrore della morte, più si aggrappano a ciò che possono e vogliono ancora controllare, il potere e la dissolutezza.

Conoscere e saper leggere queste dinamiche costanti dell’uomo e in particolare dell’uomo di potere può essere utile per evitare il moralismo nel giudizio sulla sua condotta privata. Non si tratta di giustificare i vizi, riducendoli a meccanismi, piuttosto si tratta di lealtà nel considerare che cosa l’uomo sia. Dopo venti secoli di cristianesimo bisognerebbe essere proprio stolti a non concepire la libertà umana come fattore privilegiato della moralità di una azione. Quella libertà alla quale è stata posta una domanda fondamentale, alla quale ciascuno è tenuto a dare la sua personale risposta: quid animo satis? che cosa basta all’animo?

Quando Seneca afferma che “il bene dell’animo deve trovarlo l’animo”, senza lasciarsi irretire dall’opinione della maggioranza o dalle convinzioni della folla, ognuno intende  che quel monito tocca la libertà personale di ciascuno. Nella presa d’atto dell’insaziabilità del desiderio umano e nelle decisioni che ne derivano, l’uomo comune come l’uomo di potere rivela di che pasta è fatto. Lucrezio indica con espressione icastica l’effetto di questa dolorosa e liberante conquista.
“Eripitur persona, manet res”: si strappa la maschera, rimane la realtà.