«Ho sfondato il muro della spudoratezza ma con una disciplina da caserma». Si confidava così Salvador Dalì in un’intervista “involontaria” a Oriana Fallaci (la Fallaci infatti lo detestava). In questa ammissione Dalì dava un lato di se stesso che troppo spesso i curatori dimenticano, puntando solo sul suo coté bizzarro ed estroso. La disciplina, si sa, è il metodo dei classici, e Dalì dichiarando questo suo rigorismo voleva mettersi tra le loro fila. Invece anche nell’occasione di questa mostra milanese, che sta riscuotendo un grande successo di pubblico, a Dalì è andata male.



Personalmente non amo Dalì, come fatico ad amare il surrealismo quando gioca a scoprire i meccanismi del subconscio (vedi il caso di Magritte), ma sono consapevole dell’impatto che il pittore catalano ha avuto sull’immaginario dell’arte del nostro tempo. E non solo in quello dell’arte, ma anche nella pubblicità, nel cinema e così via… Dalì del resto è stato un surrealista anomalo, provocatore anche rispetto ai suoi compagni di avventura, difficile da incasellare. Nato come disegnatore tecnico ha sempre fatto leva su questa sua grande abilità nel concepire immagini dalle prospettive spiazzanti (come i suoi celebri orologi molli, che rappresentano quasi l’icona della sua arte). I suoi primi anni sono all’insegna di una pittura figurativa quasi iperrealista; i suoi ultimi invece sono segnati dalla contaminazione con la cultura pop. Nel mezzo c’è tutto il lungo percorso da surrealista, che predicava la pittura automatica e intanto si cimentava in composizioni elaboratissime dai significati volutamente sfuggenti. Quello di Dalì è in effetti un surrealismo in versione Dada che punta sempre allo spiazzamento dei suoi interlocutori, sui doppi giochi linguistici, su una dissacrazione dell’oggetto artistico.



Quando ci si trova davanti a personaggi così eclettici i curatori si sentono quasi liberi di sbizzarrirsi nelle chiavi di interpretazione e quindi di proporre i percorsi espositivi più creativi; ma facendo questo si mettono incautamente in gara con autori che, come Dalì, quanto a creatività, ne avevano in dosi persino eccessive. Finiscono così con il ghettizzarli dentro stereotipi che non servono a loro (a conoscerli) e annoiano noi. A Milano è accaduto questo: una selezione abbastanza modesta di opere di Dalì è presentata aggregando tematicamente o per situazioni le opere; l’allestimento fa il resto, con il tono un po’ fieristico di quei colori plateali che cambiano di sala in sala.



È una mostra su Dalì che finisce con il fare il verso a Dalì, quindi. Come accade con il titolo della mostra, Il sogno si avvicina, che è tratto da una piccola opera di Dalì per altro non presente in mostra. Il titolo sganciato dal suo oggetto diventa un volano kitsch, e nella sua indeterminatezza apre alle suggestioni più incontrollate.

 

Invece Dalì andrebbe approcciato in controtendenza, cioè seguendolo nel suo sviluppo storico, con tutte le connessioni che aveva stabilito stagione per stagione; e andrebbe presentato con la sobrietà (e pure il rispetto) con cui si presenta un artista che ormai è un classico. Presentare Dalì com’è stato presentato a Milano equivale ad allestire il Warhol delle prime esperienze pop in uno scenario da scaffali da supermercato. Non è un caso che sono proprio le opere che nel percorso di Palazzo Reale godono di una certa tranquillità espositiva, quelle da cui traspare meglio il climax espressivo di Dalì. Mi riferisco al dittico iniziale, ispirato a Claude Lorrain o a due altre opere di grande semplicità e carica misteriosa come Tavola solare (1936) e Due pezzi di pane esprimono il sentimento d’amore (1940).

 

Certo, poi bisogna fare i conti con l’artista che fa del surrealismo un grande spettacolo commerciale (“Avida dollars” lo aveva ribattezzato Breton, anagrammando il suo nome). Con quello che arriva al pop e lo impiastriccia con tutte le sue manie. E bisogna fare anche i conti con il Dalì che si professa cattolico (fatto non digerito dai suoi ex amici surrealisti) ma che sui soggetti cristiani schiaccia a più non posso il pedale dell’oleografia. In mostra è presente una piccola Crocifissione, sul modello di quella celebre conservata al MoMA a New York, con la croce in 3D che certo precorre molta cultura visiva della nostra epoca, ma riduce a sequenza di fantascienza l’immagine più diffusa dell’iconografia cristiana. Per fortuna come sempre Dalì non è mai uno solo. E del Dalì “sacro” ci resta anche un’altra versione, quella delle bellissime illustrazioni della Bibbia realizzate ad acquerello nel 1964, sorprendenti per libertà e semplicità. Piccoli capolavori quasi fortuiti, di un Dalì insieme geniale e devoto.