Luigi Berlinguer, europarlamentare del Pd ed ex ministro della Pubblica istruzione, commenta il volantino che Cl ha scritto in risposta alla denuncia di una scomparsa del desiderio, fatta dal Censis nel suo recente Rapporto. La vera crisi attuale è quella della classe politica che ci governa, che ispirata «alla chiusura, al municipalismo e alla sacralizzazione dell’interesse individuale» rischia di contaminare le tante esperienze positive che ci sono nel paese. «Servono persone che documentano un’umanità diversa: è questo che condivido del volantino».



Berlinguer, c’è secondo lei un «calo del desiderio» che sta togliendo energie alla nostra «voglia di costruire, di crescere, di cercare la felicità»?

«Non condivido questa tesi, e nemmeno il volantino, là dove sposa l’analisi del Censis. La trovo francamente sproporzionata. Generalmente le tesi sostenute da De Rita e dal Censis sono state tappe fondamentali dell’analisi sociale italiana, ma quella del calo del desiderio mi pare più una fascinosa definizione interpretativa, troppo scostata dalla realtà dei fatti. La mia opinione è un po’ diversa».



Si spieghi, professore.

«Ci sono tanti indizi che vanno in direzione opposta. Le analisi Ocse-Pisa 2009 confermano una ripresa della capacità complessiva di interpretare la realtà; una recente ricerca Istat, corroborata dai dati emersi dalla Fiera dei piccoli editori a Roma, dice che in Italia ci sono un milione di persone in più che leggono; la scolarizzazione è in espansione. Ci sono imponenti fenomeni di volontariato, capillarmente diffusi, che segnano in profondità il periodo nel quale viviamo e che vedono le giovani generazioni agire con un’abnegazione e una generosità prima sconosciute. Sono esempi non scientifici, forse non generalizzabili come le analisi che ha fatto il Censis, ma mi pare che nella nostra società ci siano focolai di desiderio che ambiscono a diffondersi. Tutto questo non si può trascurare. Riconosco, è vero, che i fatti positivi non sono normalmente riportati sugli organi di stampa».



Non vede dunque i segni di una crisi della soggettività?

«Non vedo una “crisi antropologica”. È un termine troppo forte, perché vorrebbe dire che la crisi incide sulla natura del nostro essere uomini, più che sul comportamento. Io sono convinto che la nostra società viva innanzitutto una crisi morale».

Si riferisce ad una perdita di senso dei valori?

«Sono consapevole del rischio di quello che il mondo cattolico chiama “relativismo”, anche se non ne condivido filosoficamente la formulazione. Il dato più grave, a mio modo di vedere, è la diffusione di una sensibilità egoistica su vasta scala, che nelle punte più estreme diviene sistema organizzato. Dalle evocazioni razzistiche che dominano la società fino alla politica del mercimonio. Tutto ciò è il portato di una chiusura mentale e culturale allo spirito della globalizzazione che invece invoca confronto, curiosità, apertura. La reazione che rischia di prevalere è quella di una spasmodica ricerca di sicurezza, culminante nell’individualismo, nella diffidenza e nel localismo».

 

La crisi politica è causa o effetto di questa situazione secondo lei?

 

«La classe politica che si trova alla guida del paese ha le sue responsabilità. In essa si trova pienamente realizzato lo spirito individualistico di cui le ho parlato: un’esaltazione di qualità che non sono quelle profondamente umane, perché tendenti in modo parossistico alla conservazione e all’affermazione del “sé”. È il successo individuale da conseguire a dispetto degli altri, nella politica e nella competizione economica».

 

Ma lei parla di un’intera classe politica o della maggioranza di governo?

 

«Mi riferisco a chi guida il paese in questo momento. Questa classe politica, e il primato assoluto che essa impone dell’interesse individuale, sta intaccando le basi virtuose della società ordinata, ricca di generosità».

 

Quindi secondo lei è Berlusconi che sta guastando quella stessa società che lo ha eletto.

«Quando Cl afferma che “le forze che cambiano la storia sono le stesse che cambiano il cuore dell’uomo”, ha ragione. Possono farlo con l’esempio positivo, ma possono farlo anche con l’esempio negativo. Il fatto è che la storia cambia in una direzione esattamente opposta alla chiusura, al municipalismo, alla difesa ad oltranza del proprio piccolo, alla sacralizzazione dell’interesse individuale. C’è una classe dirigente che fa una politica sulla misura dell’egoismo. Ma questo non è soltanto iniquo, è sciocco, perché non succederà questo. La storia va nella direzione opposta».

 

Nella seconda parte del volantino si suggerisce un metodo: la rinascita del desiderio, o una ripartenza morale per usare le sue parole, viene affidata a «persone che documentano un’umanità diversa». Che ne pensa?

 

«È questo che condivido del volantino. Perché scardina ogni forma di laudatio temporis acti (rimpianto del tempo passato, ndr), la diffusa volontà di restaurare per contrapporsi al cambiamento, ed esalta persone che riconoscono quel “qualcosa che nella realtà già funziona”. Mi piace la proposta di documentare un’umanità diversa, e apprezzo la citazione di Benedetto XVI che richiama all’“intelligenza della realtà”. Per cambiare l’educazione, non dall’alto possiamo aspettarci qualcosa, o dalla difesa dell’esistente, ma dalle pratiche innovative di chi fa educazione, da quello che le scuole migliori stanno esprimendo nel mondo e in Italia. Avere intelligenza della realtà vuol dire proprio questo: cominciare da qualcosa che funziona».

 

Cosa serve per utilizzare al meglio queste risorse vere?

 

«Un approccio culturale aperto. L’umanesimo della curiosità, che è anche quello della tecnologia e della scienza, è chiamato a portare la creatività dentro la scuola. È questa la strada ed è qui che vedo la valenza positiva del desiderio che il volantino vuole rilanciare. Oggi il suo nemico è chi, invece di ripensare la promozione umana nel modo che richiede la natura interculturale del mondo aperto, si rifugia in una nicchia per difendere l’esistente e la propria sopravvivenza. Ma i tempi che arrivano ne decreteranno la sconfitta».

 

(Federico Ferraù)

 

 

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