Alcuni personaggi oggi osannati anche per il successo delle loro trasmissioni televisive portano scritto in faccia il vizio dominante della nostra società, malata di malinconia. Sono lividi di risentimento. Le prediche laiche che sono soliti fare e che molti approvano con convinzione non derivano affatto da un ideale scoperto e ansioso di essere comunicato, ma proprio dalla elaborazione del risentimento, che non trova altro sfogo se non nel moralismo di parole usate costantemente come armi. Arrabbiati come i loro padri sessantottini, sono però più sottili di loro. Non scendono in piazza, non si mescolano tra la gente, non rischiano lo scontro fisico. Ben protetti nella loro gabbia dorata, salgono sul pulpito e da lì denunciano gli avversari con argomenti di sicura presa. Pescano nel torbido, perché tutti siamo affetti dallo stesso male di vivere, e occorre maggior forza a resistervi di quanta non ne sia necessaria a consentirvi.
Alla larga da tali maestri, se si può, anche se sono così invadenti! Sono queste considerazioni derivate dalla lettura di un contributo di Marco Belpoliti sull’Almanacco Guanda 2010, Malaitalia. Dalla mafia alla cricca e oltre, in cui si parla di corruzione, con tanto di apparato etimologico, come dell’alterarsi e del guastarsi del sentimento morale, prima ancora che di atti materiali. Ed è qui che entra in gioco il risentimento, o il rancore, che è lo stesso. E’ esperienza comune quanto sia aumentato nel vivere comune il senso di animosità verso gli altri, l’attitudine all’ostilità e all’accanimento come risposta a offese e frustrazioni che si ritiene di avere subito.
Questa è la prima forma di corruzione: la parola rancore ha la medesima radice di rancido. Secondo gli psicologi, il risentimento ha la sua radice nell’invidia: peccato privo di piacere, che si rode in una ruggine interna, senza giungere alla desiderata affermazione del proprio io. L’autore cita poi le opinioni della Arendt e di Nietzsche, che allargano alla società intera il meccanismo dei passaggi dalla malinconia all’invidia, al risentimento, alla corruzione.
Il risentimento può essere collegato anche all’accidia, il meno noto tra i vizi capitali individuati dalla filosofia greca e ripresi dalla cultura romana e cristiana. Orazio, così saggiamente epicureo, la definisce strenua inertia, la smaniosa inerzia. Detto in altro modo, l’inquietudine. Per san Tommaso essa non è solo l’indugio a decidersi per il bene e l’incostanza nel perseguirlo, ma più precisamente la tristezza del bene, una inattività dell’anima che non vuole e insieme non può volgersi alla vera gioia. Dante rappresenta gli accidiosi insieme agli iracondi nel pantano del fiume infernale Stige, afflitti dalla tristezza che li stringe alla gola più della melma di cui hanno piena la bocca. Nei canti centrali del Purgatorio, che spiegano la dinamica della libertà umana, l’accidia viene definita come amor del bene scemo / del suo dover, ovvero come desiderio solo intenzionale della vera gioia, privo degli atti necessari a conquistarla. L’insufficiente energia morale dell’accidia è riconosciuta come propria attitudine da Petrarca, che la fa risalire al disinganno. Anche in questo i moderni, e non solo i poeti, sono un po’ tutti suoi eredi.
Solo la gioia che viene dal desiderio sincero e dalla volontà di tendere al proprio compimento libera la vita sociale dall’invidia della supposta migliore condizione altrui, dà lo slancio per superare il rancore e convoglia le energie verso opere e parole costruttive.
E’ un augurio ai personaggi noti per le loro requisitorie, famosi per stigmatizzare le pagliuzze e anche le travi negli occhi altrui, pagati per aumentare la malinconia che deriva dagli scandali continuamente esibiti, è un augurio agli italiani che li ascoltano e a quelli che non li ascoltano: pensiamo un po’ di più a che cosa vogliamo veramente, accusare gli altri oppure cercare un modo più sano per essere risarciti dalle inevitabili ferite della vita. Chissà che questo pacificante esercizio collettivo non renda, col tempo, la patria che amiamo meno corrotta.