«Il mio compito è rilevare che il desiderio non c’è più, lascio le analisi agli altri». E ancora: «L’unico desiderio che noi sentiamo come in comune a Dio e a noi, è la giustizia: è l’idea di giustizia quella che “copre” tutti e due i campi. C’è una doppia profondità del desiderio, e dunque anche una sua causa ontologica? Non lo sappiamo». Giuseppe De Rita, presidente del Censis, interviene sul sussidiario dopo la pubblicazione del volantino di Cl sul desiderio. Proprio il desiderio era stato il criterio-guida dell’ultimo rapporto Censis sulla situazione sociale del paese: quella di un’Italia ormai consegnata alla crisi, a causa dello spegnimento delle sue volizioni più profonde.



In questa società descritta come «fragile, cinica, passivamente adattativa, condannata al presente», qual è il desiderio di cui lei nel rapporto Censis accusa la scomparsa? Un desiderio senza qualità, un non-desiderio o un cattivo desiderio?

Il desiderio, secondo la mia tesi, non c’è: nel senso che il sovradimensionamento dell’offerta ha portato all’estinzione del desiderio. Abbiamo più possibilità di scelta, ma la possibilità di desiderare ci è tolta. Se un ragazzo esce oggi dal liceo e va all’università, rispetto a 10-20 corsi di laurea di una volta, trova adesso… quanti corsi? Può scegliere, ma non desidera. Ugualmente, se lei capita nella stanza di un bambino di oggi, trova una montagna di giocattoli. Il bambino può scegliere con quali di quei giocattoli divertirsi nella prossima mezz’ora, ma non li desidera più. Pensiamo ad un oggetto qualsiasi: un telefonino per esempio. Oggi possiamo scegliere tra un’enorme quantità di offerte,in realtà abbiamo desiderato soltanto il primo telefonino, quando era una cosa totalmente nuova. È l’offerta che disinnesca il desiderio.



Massimo Recalcati, dibattendo sui temi del vostro confronto, ha detto che c’è stato un errore nella trasmissione del desiderio da una generazione all’altra. Secondo lei questa trasformazione in negativo del desiderio è anche un problema di educazione?

Recalcati conosce senz’altro meglio di me le dinamiche della famiglia e della trasmissione generazionale. A me sembra di poter dire, come ho scritto nel rapporto citando Marcuse, che è il tardo capitalismo a realizzarsi con la moltiplicazione delle offerte. È questa strategia che disinnesca il desiderio, non è tanto un problema interno alla famiglia.



Giorgio Vittadini, in un suo recente editoriale su Avvenire, si è rifatto ad un’accezione ontologica di desiderio: la natura di ogni uomo è costituita dal suo desiderio di verità, di giustizia, di bellezza, espressione del nostro rapporto con l’infinito.

L’unico desiderio che noi sentiamo come un desiderio, per dir così, appartenente a Dio e a noi, è la giustizia: è l’idea di giustizia quella che “copre” tutti e due i campi. C’è una doppia profondità del desiderio, e dunque anche una sua causa ontologica? Non lo sappiamo. Aveva comunque ragione Leopardi nel dire che il desiderio è in ciascuno di noi, e che essere giovani significa avere il desiderio di desiderare. Io rilevo che questo desiderio non c’è più.

 

Lei nel Rapporto ha stretto un nesso molto forte tra legge e desiderio. Perché?

 

L’inconscio di ciascuno di noi, che io ho voluto trasporre nella sfera collettiva e sociale, è fatto da un’“alchimia” costante, quotidiana, tra desiderio e legge. Il meccanismo vede sempre un desiderio emergente e una legge – divina, dello Stato, della comunità, del padre – in qualche modo costrittiva. Ma se la legge evapora, il desiderio non si forma. È questo il meccanismo che non funziona più nella società italiana e destabilizza completamente la nostra personalità. Da cui questo senso di vuoto, di fragilità, di “rinserramento” in un sé stesso che non c’è.

 

Cl, nel suo volantino, dice che il vero problema del nostro tempo è chi può ridestare il desiderio, e si suggerisce che la strada non sia più quella dell’ideologia ma dell’esperienza: casi virtuosi di persone che «desiderano» e costruiscono. Che ne pensa?

 

Come tesi di fondo sono convinto che sia così, perché l’ideologia non conduce più a niente. I desideri, così come la vita, si formano nel cammino, quindi forse – forse – hanno ragione coloro che dicono che bisogna raccontare il cammino, se vogliamo far nascere altri desideri. Questo spiega Cl al pari di Nichi Vendola: entrambi raccontano e partono dall’esperienza.

 

Nel volantino si dice che l’alternativa radicale tra ideologia ed esperienza si pone anche per la Chiesa.

 

In questo è vero. La Chiesa oggi sta dibattendo se appoggiare Fini o Casini, come farebbe una centrale di politica ecclesiastica, si sarebbe detto una volta. La dimensione ecclesiale non c’è più, resta il fenomeno gerarchico: tre o quattro parlano per tutti. Allora la sfida del desiderio rivolta alla Chiesa è quella di indurre a camminare.

 

Scorrendo i dati che emergono dal rapporto Censis si può vedere che non sono poi tutti così negativi. Merito della nostra capacità di galleggiare, ammesso che sia una virtù e non un vizio?

 

 

La nostra capacità di galleggiare c’è e resiste bene. Sono anni ormai che galleggiamo, dalla prima vera crisi radicale del secolo, quella dell’11 settembre, e ci siamo nel mezzo ancora oggi. In dieci anni siamo diventati artisti del galleggiamento: nella famiglia, nelle piccole imprese, nelle realtà locali. Funziona ancora, ma stanca. Replicare stanca.

 

Ci sono quei 2milioni e 200mila giovani tra i 15 e i 34 anni che non studiano e non lavorano, dice il Rapporto, però c’è un 26 per cento di italiani che fanno volontariato. Come valuta questi aspetti contrastanti?

 

Come un cammino complicato. Il cammino storico di una nazione o di una società è dato da tanti processi, e il popolo che cammina è quello in cui ci sono tante realtà non profit e quello in cui i giovani stanno ad aspettare. C’è un insieme di atteggiamenti nel corpo sociale che non possono esser messi in colonna, in fila. È una molteplicità da decifrare. Io tento di interpretarla.

 

Esiste secondo lei il rischio che la persona, in assenza di desiderio, cioè di un io che riconosce altro al di là di sé, affidi la consistenza ultima dell’agire sociale allo Stato e alla sua capacità di produrlo?

 

No, perché la società può non desiderare, ma in ormai settant’anni di democrazia italiana non ha mai creato distorsioni che hanno richiesto l’intervento dello Stato. Nemmeno il ’68 è stato un’effettiva tensione sociale: era una tensione politica camuffata da tensione sociale. Ecco perché lo stato non ha avuto problemi nel gestirla.

 

Un’ultima domanda: lei, De Rita, è ottimista o pessimista?

 

Ho combattuto tutta la mia vita a dire che non ero un ottimista, mentre tutti mi dicevano che ero un ottimista beota. Quest’anno, visto che non sono stato un ottimista beota, tutti dicono che De Rita è diventato pessimista. E Mario Pirani ha detto: finalmente, aspettavamo che De Rita si convertisse.

 

(Federico Ferraù)

 

 

 

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