“Torniamo a desiderare”. L’invito, senz’altro inedito nel contesto delle analisi socio-politiche che ogni giorno si riversano abbondantemente sul nostro Paese, è risuonato con frequenza nelle cronache degli ultimi giorni. Lo ha lanciato con clamore mediatico l’annuale rapporto del Censis sulla situazione sociale italiana, ma qualche giorno prima il tema del desiderio era stato messo al centro dell’Assemblea nazionale della Compagnia delle Opere, uno dei soggetti più presenti e più attenti proprio all’intersezione di dinamiche socio-economiche e vocazioni esistenziali.



Si tratta di un invito che costituisce senza dubbio un’occasione di grande interesse per comprendere più a fondo la vera posta in gioco nella crisi che sta segnando il nostro momento storico. Una crisi che si allarga e si manifesta sia in senso “latitudinale”, attraversando campi contigui e intrecciati tra loro – dall’economia alla politica, dall’organizzazione sociale alla comunicazione mass-mediale -, sia in senso “longitudinale”, invadendo e includendo in sé le diverse facoltà dell’esistenza individuale, dall’intelligenza alla libertà, dalla razionalità all’affettività. Il tema del desiderio sembra in effetti costituire uno dei punti di incrocio, per dirla ancora nei termini della geografia terrestre, tra il “parallelo” della struttura sociale e il “meridiano” dell’esistenza personale.



Il primo dato che emerge, quando si parla dello stato del desiderio e di come esso è considerato nella mentalità più diffusa ai nostri giorni, è che si tratta di un fenomeno in via di riduzione, come una dinamica inceppata. E qui bisogna intendersi sui termini: da un lato infatti sarebbe impossibile vivere senza desiderare, cioè senza attendersi qualcosa, senza che venga mossa la curiosità, la ricerca, l’interesse di ogni uomo; dall’altro lato assistiamo a una delimitazione sempre più stretta dell’oggetto di tale aspettativa, che viene identificato di volta in volta con le immagini, gli oggetti e i modelli rappresentati (e spesso tacitamente imposti) sulla grande scena della cultura al potere.



E non si può dire (come spesso accade di ascoltare negli analisti che difendono la superiorità di una posizione “etica”, rispetto all’ottuso consumismo dilagante fra gli ignoranti) che si tratti solo del predominio delle merci sui valori o dell’appiattimento dell’utopia sul consumo. L’indebolimento del desiderare non è dovuto solo alla sazietà del consumatore eterodiretto dalla televisione, ma anche all’attrezzato cinismo di buona parte della cultura “alta”, la quale continua a ripetere che non c’è – né ci potrà mai essere – una vera risposta al desiderio dell’uomo, una soddisfazione che arrivi a compierlo.

Quando affermo che nella mentalità oggi più diffusa il desiderio risulta spesso ridotto, mi riferisco a quel potere culturale che rappresenta trasversalmente il nostro intero “universo” individuale e sociale, offrendo sia i modelli della consuetudine che quelli della trasgressione, sia l’ordine costituito che l’alternativa ad esso. Sono tali rappresentazioni che plasmano, per così dire, il desiderio dei singoli, fornendo determinati criteri per affrontare e giudicare l’esperienza, ed escludendone altri. E questo vale non solo per chi si attacca ai suoi “prodotti” senza alzare lo sguardo più in là o più in alto, ma anche per chi vagheggia o sogna o lamenta l’assenza di un livello “altro”, pur sapendo di non poterlo mai raggiungere.

 

Per quanto possa sembrare paradossale, è da una matrice unica che derivano conseguenze opposte riguardo ai valori di riferimento e agli atteggiamenti scelti: essa consiste nel ritenere che il desiderio dell’uomo abbia la stessa misura dell’uomo, che cioè non lo porti mai veramente oltre sé, giacché sia nel possesso degli oggetti in cui crede di appagarsi, sia nel porsi obiettivi “altri” e nel prospettare traguardi al di là del presente, l’uomo non farebbe che rispecchiare unicamente se stesso. Soggetto e insieme oggetto del suo desiderio.

 

Ci troviamo così sempre stretti nella tenaglia di una doppia riduzione: da un lato il desiderio rischia sempre di essere ridotto agli obiettivi e alle prestazioni che di volta in volta ci si pone o agli oggetti e alle condizioni materiali cui si demanda il riempimento delle nostre mancanze; dall’altro lato, proprio quando si vuole salvaguardare la potenzialità e l’apertura irriducibile del desiderio, lo si condanna ad essere una tendenza cieca, un’attesa vana, priva di un suo “oggetto” proprio. In questo modo di concepire le cose, delle due l’una: se il nostro desiderio viene soddisfatto vuol dire che ci stiamo accontentando degli oggetti a nostra disposizione; se invece esso resta libero e aperto, vuol dire che non potrà mai essere soddisfatto – o al limite potrà fornirci solo delle norme etiche o delle prospettive utopiche su come “dovremmo” comportarci.

 

E tuttavia, come spesso succede nell’esperienza umana, anche la riduzione di un fenomeno può dirci qualcosa della sua natura e della sua dinamica. E difatti qui ci troviamo di fronte allo strano, inevitabile paradosso che sempre accompagna il desiderio: senza dubbio esso si costituisce come il tendere ad una soddisfazione, come una mancanza che cerchi una presenza, o una domanda che miri a una risposta; ma poi, nel momento in cui una soddisfazione arriva, ci si accorge che il desiderio difficilmente troverà il suo acquietamento nelle misure di una risposta determinata e circoscritta. In qualche modo ogni soddisfazione è sempre inevitabilmente inadeguata rispetto al desiderio. 

 

Qui si apre la possibilità di interpretare in due modi diversi il fenomeno: esso potrebbe significare (come avviene in una prospettiva psicoanalitica, esplicitamente richiamata nel Rapporto Censis) che il desiderio è semplicemente un impulso libidico inconscio che porta l’io ad elaborare in forma simbolica, linguistica, culturale, relazionale il suo bisogno di superarsi, di entrare in rapporto con altro da sé. Ma tale rapporto dev’essere salvaguardato dal caos dell’istinto puramente edonistico, e cioè dev’essere regolamentato o incanalato. A questo servirebbe la figura psicoanalitica del “padre”, raffigurazione della legge e dell’ordine che delimita la potenza irrazionale dei nostri impulsi, vietando la soddisfazione del desiderio edipico. Paradossalmente la figura del padre ostacolerebbe la soddisfazione del desiderio inconscio e con ciò stesso gli darebbe per contrasto la sua vera spinta costruttiva. Proprio perché insoddisfatto l’uomo continuerebbe sempre a desiderare.

 

Ma il fenomeno paradossale del desiderio umano che, in quanto tale, non può mai arrestarsi ad una soddisfazione determinata e “oggettivata”, potrebbe significare anche un’altra cosa, e cioè che la natura dell’io è per così dire “fatta” o “strutturata” come rapporto con l’infinito. In questo caso la soddisfazione non sarebbe da intendersi solo come ciò a cui tentiamo di arrivare (senza peraltro mai riuscirci), ma come ciò da cui parte il desiderio: un “altro”, una “presenza” che sta all’inizio dello stesso movimento del desiderare, e dalla quale soltanto può nascere la coscienza di una mancanza e il rapporto con ciò che ci manca. In tale prospettiva, l’“oggetto” vero e proprio del desiderio diviene finalmente accessibile all’io, ma non come un prodotto del suo stesso desiderio, bensì come una realtà presente e altra da esso che lo attrae. Un oggetto che non può essere ridotto ad una nostra determinazione o a una nostra proprietà. E il padre può rappresentare non solo la figura dell’autorità come fonte del divieto e della legge, ma la figura del generatore, di chi ci dà a noi stessi – non “a caso”, ma con un senso, in quanto voluti, affermati per noi stessi. Il desiderio può dunque essere visto non solo come una nostra pulsione verso qualcos’altro, ma come l’attrattiva che questo altro esercita sul nostro io, come il “magnete” misterioso e infinito che calamita l’energia della nostra intelligenza e della nostra affettività.

 

Da questo punto di vista la spiegazione psicologica e psicoanalitica, pur individuando alcuni fenomeni strutturali del desiderio inteso come un meccanismo della psiche, si rivela però troppo stretta per cogliere l’intera portata di questo fenomeno. Più precisamente, ciò che essa non riesce a illuminare adeguatamente è il fatto – innegabile nella nostra esperienza – che noi prendiamo coscienza del nostro desiderio non a partire da ciò che ci manca, ma da qualcosa o qualcuno che comincia a corrispondere e a soddisfare al nostro bisogno. Ad esempio arriviamo a scoprire tutta la portata “desiderante” del nostro bisogno affettivo solo nel momento in cui ci innamoriamo di qualcuno, e ancor di più quando scopriamo che qualcuno vuole proprio noi. È da una presenza incontrata e sperimentata, non da una mancanza sublimata che viene destato il desiderio. E aderire a questa presenza non è solo l’esito di un meccanismo pulsionale, ma è anche e soprattutto un giudizio della coscienza e un atto della libertà.

 

Il desiderio che abita l’intelligenza e il cuore dell’io è dunque molto più, infinitamente più di un fenomeno soggettivo: esso è piuttosto la traccia dell’infinito in noi. Lo ha scritto Descartes parlando della presenza innata (ossia costitutiva e nativa) dell’idea di infinito nel nostro io finito: «In qual maniera infatti sarei consapevole di dubitare, di desiderare, cioè di esser mancante di qualcosa, e di non essere del tutto perfetto se in me non ci fosse l’idea di un ente più perfetto, paragonandomi con il quale riconoscessi le mie mancanze?» (Meditazioni di filosofia prima, III). E gli farà eco nel nostro tempo Emmanuel Lévinas: «L’infinito nel finito, il più nel meno che si attua attraverso l’idea dell’Infinito, si produce come Desiderio. Non come un Desiderio che è appagato dal possesso del Desiderabile, ma come il Desiderio dell’Infinito che è suscitato dal Desiderabile invece di esserne soddisfatto» (Totalità e infinito, § 5).

 

Per questo, il dibattito sul “torniamo a desiderare” sarà tanto più utile se proverà a liberare tutta l’ampiezza del desiderio come desiderio dell’infinito, e a comprendere che l’infinito non è un piano simbolico irraggiungibile ma è come la misura infinita che si lascia scoprire nelle pieghe del nostro ordinario. È solo questo che può accendere non solo la “voglia” di esserci delle persone ma il rischio di un impegno e di una costruzione utile per tutta la società. Ma c’è di più: arrivati a questo punto, potremo accorgerci che forse non è poi del tutto vero che il nostro desiderio stia morendo: esso è lì, pronto a riavviarsi, solo che sappia captare l’invito dell’essere, dei volti, degli accadimenti e ceda in qualche modo al Desiderabile.

 

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