Di tutti i temi toccati dall’ultimo rapporto Censis – che ci ha consegnato l’immagine di un’Italia “appiattita” e “ripiegata su se stessa”, per usare le parole dell’indagine -, quello del desiderio è apparso centrale: se non proprio nel Rapporto, senz’altro nella sua eco mediatica. Un’interpretazione avallata dallo stesso Censis: lanciando l’appello affinché “torniamo a desiderare”, Giuseppe de Rita ci ha spiegato come nella società italiana si sia rotto l’equilibrio fondamentale, descritto nelle teorie psicanalitiche, tra legge e desiderio, tra il senso delle regole e dell’autorità e la “volontà di colmare il vuoto acquisendo oggetti e relazioni”, e come questa rottura abbia compromesso la capacità della società stessa di crescere, di coltivare lo spirito imprenditoriale, di rilanciare lo sviluppo.
Non solo desiderio, dunque, ma anche legge: ma l’efficace slogan basato sul primo dei due termini ha almeno in parte impedito che l’attenzione si concentrasse sul secondo, altrettanto centrale, eppure investito di un’enfasi sensibilmente interiore. Sarà che, come afferma il Censis, “non esistono attualmente in Italia sedi di auctoritas che potrebbero ridare forza alla legge”, sarà che “improbabile è che si possa contare sulla responsabilità della classe dirigente, sulle leadership partitiche o su un rinnovato impegno degli apparati pubblici”: sarà per tutto questo che, piuttosto che insistere sulla necessità di rafforzare allo stesso tempo sia la legge che il desiderio si è preferito puntare su quest’ultimo, ritenendolo “più utile”, addirittura identificandolo con “la virtù civile necessaria per riattivare la dinamica di una società troppo appagata e appiattita”.
Del resto, invocare la ripresa del desiderio, almeno nell’attuale contesto, suona senz’altro più affascinante che auspicare un ritorno al rispetto delle regole. Ma è indispensabile che legge e desiderio vadano di pari passo, se è vero che solo l’equilibrio tra i due poli è in grado di garantire la crescita, di incanalare positivamente le energie, di coltivare e allo stesso tempo indirizzare i fermenti. Vero non soltanto dal punto di vista psicanalitico, ma anche e soprattutto da quello morale. Un desiderio senza legge finisce per assomigliare da vicino a quelle pulsioni violente e sregolate che lo stesso rapporto Censis stigmatizza: e che producono risultati molto simili a quelli che abbiamo osservato in giorni recenti, nelle piazze e nelle strade di grandi città italiane. Gli studenti che nelle ultime settimane si sono resi responsabili delle devastazioni, indebitamente presentate come “espressioni di dissenso” verso la riforma Gelmini, avrebbero gioco facile a giustificare le proprie azioni in nome di un generico primato del desiderio che non ammette vincolo alcuno, e che verosimilmente sono stati educati a considerare come valore assoluto.
Di fronte a fenomeni del genere, non basta alzare le spalle, lamentando l’impotenza del sistema politico, istituzionale e amministrativo a rappresentare un punto di riferimento credibile: occorre invece rivalutare sia il ruolo del desiderio che quello della legge, e avere il coraggio di appellarsi a entrambi, per quanto impopolare possa suonare. Il fatto stesso di invocare l’“educazione del desiderio come ultima sponda di un’Italia senza legge” è un controsenso, dal momento che lo stesso concetto di educazione – e-ducere, e quindi guidare – presuppone quello di legge, di regola, di guida che indica la strada. Senza questa guida, l’impulso resta cieco, sbanda senza meta, fallisce nel tentativo di colmare il vuoto che rintraccia intorno a sé. La legge non è solo autorità, incarnata più o meno efficacemente da figure pubbliche e istituzionali: la legge è anzitutto l’energia morale che faceva alzare gli occhi a Immanuel Kant, sentendosi non indegno del cielo stellato che vedeva sopra di sé. E se per alzare gli occhi occorre desiderare, aderire alla legge resta indispensabile per vedere questo cielo, e non semplicemente un vuoto cosmico.