Per motivi diversi ho avuto recentemente a che fare, dal punto di vista professionale, con il concetto di “appartenenza culturale” che è al centro delle riflessioni di molti autori contemporanei in diversi campi.
Durante una conferenza sul multiculturalismo, un bravo dottorando ha esaminato e sostenuto la proposta filosofico-politica di Bhikhu Parekh, uno dei massimi esponenti di un pensiero che vuole considerare positivamente il ruolo delle appartenenze religiose all’interno della politica e della legislazione. Una posizione difesa con molto successo in Canada da Charles Taylor. L’opera di Parekh è particolarmente interessante perché non propone solo una soluzione teoretica, ma si appoggia all’esempio indiano come possibilità di realizzazione pratica.
Nel modello indiano, che Parekh suggerisce, ognuno si iscrive a uno dei quattro principali gruppi religiosi o aderisce al gruppo non religioso della Costituzione. Il diritto civile con cui verrà giudicato su materie concernenti il matrimonio, il divorzio, la tutela, l’adozione, l’eredità e la successione è quello del gruppo religioso (o a-religioso) a cui è iscritto. La proposta è analoga a quella di Taylor per il Canada e poggia su un ragionamento che si potrebbe riassumere così: non è vera l’impostazione illuminista-liberale che pensa che la religione e l’appartenenza in genere siano qualcosa da tenere nel privato; religioni e appartenenze sono parte del patrimonio culturale di ciascuno e far finta che non ci siano significa solo accettare altri tipi di appartenenza; l’appartenenza religiosa determina inevitabilmente scelte e costumi e quindi occorre valorizzarla almeno dal punto di vista del diritto civile o di una sua parte. I cattolici siano giudicati da cattolici secondo leggi cattoliche, i musulmani dai musulmani, ecc.
Nel frattempo sto editando gli articoli del prossimo numero della rivista European Journal of Pragmatism and American Philosophy (www.journalofpragmatism.eu) che è dedicato alla figura del filosofo americano contemporaneo Stanley Cavell. Cavell utilizza Emerson e il secondo Wittgenstein per sostenere quello che chiama “perfezionismo morale”. Tradotta, la formula significa che per non cadere nello scetticismo, morale o politico, non ci si può affidare alle regole. Occorre invece che ciascuno approfondisca la comprensione di se stesso attraverso l’appartenenza alla sua storia e tradizione, che conosciamo attraverso il nostro modo di utilizzare il linguaggio. Per vivere una vita qualitativamente bella, occorre perfezionare, cioè migliorare, se stessi in un dialogo tra la tradizione di appartenenza e le proprie doti e aspirazioni di cui si cerca l’eccellenza. Sarà questo dialogo a chiarire l’orizzonte di perfezionamento di ciascuno. Il perfezionamento non deve avere necessariamente un fine perché ciascuno ha la propria storia di appartenenza e il proprio percorso di perfezionamento. Un perfezionamento senza fine e senza fini.
Non c’è dubbio sul fatto che queste posizioni siano interessanti e che ci sia del vero. L’impostazione della ragione neutrale vetero-illuminista ha mostrato da tempo tutta la sua impossibilità. Si appartiene sempre a qualcosa o a qualcuno, è dal fondo di questa appartenenza storicamente determinata che uno capisce se stesso e gli altri, e il percorso della comprensione di sé non è limitato.
Eppure c’è qualcosa che non torna. Alla fine, sia in politica che in morale, le posizioni che difendono l’appartenenza sembrano cadere in uno storicismo localista e in un idealismo privato e illusorio. Le obiezioni evidenti ai due sistemi lo dimostrano: il sistema indiano trova ostacoli insormontabili quando uno vuole cambiare il proprio gruppo di appartenenza, soprattutto quando i valori che lo riguardano sono diversi (una donna musulmana che si appella al diritto di famiglia costituzionale o di un altro gruppo, da quale codice verrà giudicata?). A Cavell si può chiedere, come fanno alcuni studiosi nel numero della rivista, se c’è differenza allora tra il perfezionismo di un santo e quello di un farabutto. Entrambi cercavano di “perfezionare se stessi” dialogando con la propria storia. Quindi non ci dovrebbe essere differenza. Intuitivamente, però, si capisce che qualcosa non funziona.
Il problema è che la concezione di ragione di questi difensori dell’appartenenza, dei communitarians, della sofisticata filosofia del linguaggio cavelliana, è la stessa dei loro avversari. Giustamente cercano di includere dentro il ragionamento anche la storia, il sentimento, l’uso comune, la religione, la sociologia e la psicologia, ma per farlo devono ridurre le esigenze di universalità, finalità e verità della ragione. Per limitarne la presunzione ne limitano la portata, come un padre che volesse limitare la presunzione del figlio dicendogli di non avere aspirazioni troppo alte invece che spiegare come usare quelle aspirazioni. Per tutti rimane valida la concezione moderna di necessità, universalità e aprioricità come connotati della certezza. Si può essere solo “matematicamente certi”, intendendo per matematica quella analitica da Cartesio alla logica formale. O si è certi secondo questi canoni (i neo-illuministi di ogni specie) o non si può essere certi affatto e bisogna allora consegnarsi ad altri criteri, al localismo storico, linguistico e culturale, alle aspirazioni e ai sogni privati.
Si può uscirne? Penso di sì. Ripensando la definizione di ragionamento, centrandolo sulla sua capacità di raggiungere una certezza tramite i segni, di seguire il dinamismo e il cambiamento della vita, di essere collaboratore della formulazione della realtà e della verità. La certezza in questo caso non è un connotato dell’astrazione analitica o della mera appartenenza storica. Un compito tutto da scoprire che io considero come la formulazione di “un nuovo tipo di ragionamento sintetico”. Ci sono altre soluzioni? Forse sì, e sarebbe bello poterne discutere su questo giornale.