Conoscevo Dario Del Corno da una quarantina d’anni. Da quel novembre 1968 in cui ero matricola alla Statale e frequentavo le prime lezioni del corso di letteratura greca (sulle Opere e i giorni di Esiodo, per la cronaca). Sotto la sua guida mi sono laureato e ho iniziato la carriera universitaria; ho poi collaborato con lui sia nei compiti accademici che in imprese editoriali e in progetti scientifici. Negli ultimi anni l’ho persino seguito sul terreno, da lui prediletto, delle rappresentazioni teatrali: abbiamo lavorato insieme a varie edizioni di “Parole alate”. Insomma, sono stato (e sono) suo allievo, nel senso più pieno del termine. Però succede una cosa strana, ora: se riconsidero questo lungo tratto di vita e cerco di isolarne le immagini più forti, mi viene spontaneo pensare a noi due in termini di differenza. La mente, cioè, non va al molto (di fatto, quasi tutto quel che so) che ho imparato da lui, ma a quello che lui era e io non sono, né sarò mai.
D’altra parte, non è forse così strano. Mi succede anche con mio padre: ne ricordo soprattutto i “no”; anzi, quando penso a lui, quel che più facilmente affiora dai meandri della coscienza sono i momenti di conflitto. Probabilmente, deve essere così con le figure che ci segnano, che lasciano una traccia in noi: la loro azione educativa (e si educa soprattutto correggendo, segnalando un’inadeguatezza) continua, anche quando il contatto fisico non è più possibile. Inoltre, è stato Del Corno stesso a insegnarmelo. Era solito dire che l’attualità dei classici si coglie allorché si prende coscienza della distanza che ci separa da essi, più che nella percezione di una continuità immediata. Si riferiva, credo, soprattutto al teatro, alla tragedia. Nella sua intensissima attività teatrale tradusse e adattò per la scena moltissimi drammi antichi, e si rese conto che una simile operazione è in realtà una rivisitazione totale (quasi una riscrittura) del testo: quindi un’azione per molti versi arbitraria, e inevitabilmente legata alla sensibilità – tutta moderna – dello studioso. Proprio la traduzione (arte in cui Dario Del Corno eccelleva, in virtù di una genialità indiscussa) è l’espressione più chiara di questa contiguità nella differenza. Tradurre è infatti esprimere la stessa idea in un diverso codice: è quindi un’azione segnata insieme dalla corrispondenza e dall’alterità.
Consideriamo i versi iniziali del primo stasimo dell’Edipo a Colono. I corali sono le sezioni tragiche più ardue da tradurre: alla complessità del dettato, che è sempre di tonalità alta, si aggiunge la difficoltà di riprodurre la ritmicità di versi che nell’originale erano cantati. Il rischio di prodursi in goffe astruserie è molto forte. Del Corno però si muove con leggerezza straordinaria:
A questo paese di forti cavalli, ospite straniero,
sei giunto, la migliore dimora della terra,
la candida Colono, dove
l’usignolo canta senza fine
il suo lamento triste
in fondo al verde delle valli,
abitando l’edera fosca
e l’inaccessibile selva frondosa
del dio, intatta dal sole,
inviolata dal vento di ogni
tempesta, che l’ebbro signore
Dioniso in ogni tempo percorre
insieme alle sue nutrici divine.
Lasciamo però lo studioso, e diamo spazio al maestro. Anno 1976, una mattina di fine inverno, un’aula al pian terreno dell’Università Statale di Milano. Le ultime propaggini del ’68 sono ancora avvertibili, nelle tracce di grafiti sui muri e nelle inquietudini studentesche. Il professor Del Corno sta coordinando un seminario (è stato lui a trapiantare in Italia questa forma didattica, tipica del sistema universitario tedesco) sull’Epodo di Colonia di Archiloco: il discorso verte sullo schema metrico del testo. Una ragazza scarmigliata irrompe in aula e invita tutti a seguirla fuori, a manifestare in strada: è successo un fatto grave (uno studente ferito, in tafferugli con la polizia) e sarebbe scandaloso, in un simile frangente, continuare a parlare di sillabe lunghe e brevi, di ponti e dieresi. Gli studenti tacciono, lasciando la risposta al professore, che con voce soave dice: “Cara signorina, se ci venissero a dire che là fuori stanno crocifiggendo Gesù Cristo per la seconda volta, sarebbe nostro dovere rimanere qui dentro a parlare della legge del Perrotta”. Dignità della scienza, consapevolezza del ruolo, buon senso lombardo? Un po’ di tutto questo, ma soprattutto una lezione di vita, impartita con uso abilissimo della retorica classica.
Tarda primavera del 2003, siamo in Grecia con un gruppo di studenti. Si fa visita al Nekromanteion (oracolo dei morti) di Efira, lungo la costa ionica, qualche decina di chilometri a nord di Preveza. Il sito è bellissimo: dall’alto di una collina domina la piana dell’Acheronte fino al mare, che si intravede in lontananza; erbe palustri e ginestre in fiore completano lo scenario. Da buon assistente, mi incarico io di intonare l’uditorio, leggendo i primi versi dell’XI canto dell’Odissea, che descrivono l’incontro di Ulisse con le ombre dei defunti (“s’affollarono le anime dei morti, giovani donne, ragazzi, vecchi che molto soffrirono, e guerrieri squarciati dal ferro spietato…”). Dopo questa introduzione, il professor Del Corno fa lezione agli studenti, che gli siedono intorno sulle pietre del santuario. Parla delle misure del tempo, della relazione che il mito costruisce tra il passato e il presente (inverato, cioè reso reale, proprio da quel misterioso rapporto). I ragazzi lo ascoltano con attenzione totale: intuiscono che il suo discorso, partito dall’Ulisse di Omero, arriva fino a loro, anzi investe le loro persone.
Era interista, Dario Del Corno. Come me, come tutti i miei familiari. Mio figlio Stefano, ragazzo devoto, sostiene che anche il buon Dio e il Papa sono interisti: parlando con loro, non sarebbe difficile trovare un’intesa su Mourinho e Zanetti. Questo è tipico dell’interismo: è una fede fortissima, ma surreale, una fede che esalta e trasfigura. Per l’interista Dario Del Corno lo sport in genere, e il calcio in particolare, era uno spazio incantato, un luogo di affabulazione e di memoria. Al giorno d’oggi non c’è più nessuno che sappia conversare; l’arte della conversazione conviviale (la simposialità, per dirla alla greca) è caduta in desuetudine. Del Corno era un conversatore delizioso: discorreva di teatro, di musica, di letteratura, di varia umanità, mescolando giudizi “seri” e aneddoti leggeri. Intratteneva, divertiva, incantava; ma soprattutto, spiegava. Diceva Gianni Brera che il calcio è un mistero agonistico. Come ogni mistero, non può essere svelato. Ma può essere chiosato, interpretato, percorso: appunto questo faceva Del Corno; con il calcio come con ogni altro tema. Era un maestro naturale, un didatta, un didaskalos. È questa un’attitudine dello spirito, oltre che una disposizione della mente: un’attitudine che nasce da un’attenzione alla persona degli altri, e dalla percezione di sé come tōn pollōn tis (“uno dei tanti”: cioè uomo tra gli uomini, secondo la definizione di Menandro). Ecco: la condivisione della fede calcistica è qualcosa che mi rimane e mi consola. Mi posso illudere che rimandi a una dimensione non frivola dell’essere, che sia – se non una eredità – almeno un contrassegno o un talismano.