Il tenero e malinconico piccolo Principe prima di separarsi dall’aviatore per raggiungere la sua rosa dice: «è come per il fiore. Se tu vuoi bene a un fiore che sta in una stella, è dolce, la notte, guardare il cielo. Tutte le stelle sono fiorite».

Non è che una delle tante riprese del grande canto di Shakespeare, quando fa dire a Romeo «Mostrami ora una donna di bellezza insuperata. A che mi servirà tale bellezza se non a ricordarmi, come una nota in un libro, che vi è una bellezza ancora più grande?».



Cose forse non troppo famigliari, ma semplici da vivere: nell’esperienza dell’amore è facile avvertire una specie di dilatazione del proprio mondo, anche esteriore, come se tutta la realtà fosse in funzione di chi si ama e venisse da questi illuminato.

Per una volta non si è costretti a scomodare i grandi poeti, poiché tutti hanno parlato d’amore, da quando all’inizio del XII secolo è stata inventata la lirica romanza e il rozzo Guglielmo IX di Aquitania ha scritto i primi versi di una lunghissima tradizione:



Il nostro amore sta per nascere
come il ramo del biancospino,
che di notte sta sull’albero
tremando alla pioggia e al gelo;
ma come il sole splende
fiorisce sulle foglie e sul ramo verde.

Anche il genere più circoscritto della canzone popolare ha momenti di poesia, tra l’incanto della notte e la purezza dell’intimità. Così in “Mandolinata a Napoli”:

“Ma d’e pparole cchiù carnale e ddoce,
ne sceglio sulo tre: “Te voglio bene…”
Notte d’està! Se so’ addormute ’e ccase…
e ’o cielo, a mmare nu scenario ha stiso…
stai ’mbracc’a mme, ’nnucente so’ sti vase…
bella, stanotte, te so frato e sposo,
stanotte, ammore e Dio songh’una cosa…”

(Ma tra le parole più carnali e dolci, ne scelgo solo tre: ti voglio bene. Notte d’estate! Dormono le case e il cielo sul mare ha steso uno scenario. Resta nelle mie braccia, sono innocenti questi baci. Bella, stanotte ti sono fratello e sposo. Stanotte “amore” e “Dio” sono una cosa sola).



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La grande poesia d’amore parla spesso, dallo Stilnovo in poi, della salvezza apportata all’uomo dalla donna amata. Un’eco evidente si trova ancora nel Novecento, per esempio in Noventa: il poeta vicentino scrive a Franca, sua moglie:

 

El saor del pan, e la luse del çiel
Gera inçerti prima de tì:
Ancùo me par una grazia el me pan,
E me continuo, vardando nel çiel.
Ancùo so che Dio no’ pol esser
Lontan da mi.
Ch’el xè dapartuto.
Mi te strenzo: e, co i brassi te perde,
Mi te çerco e te trovo partito.

 

E Vittorini rivela la sua ricerca nell’amore di Berta ed Enne 2 nella tragedia del 1943 a Milano:

 

“Sai,” egli le disse, “ che cosa sembra?”
“Che cosa?” disse Berta.
“Che io abbia un incantesimo in te.”
“E io in te. Non l’ho anch’io in te?”
“Questa è la nostra cosa.”
“C’è altro fra noi?”
“Pure sembra che ci sia altro.”
“Che altro?”
“Che io debba vederti quando sono al limite”
“Come, al limite?”
“Quando ho voglia di perdermi”.
“Tu hai voglia di perderti?”
“Ora è il contrario. E questo dico che sembra un incantesimo. Che appena ho raggiunto il limite debba ritrovarti e avere il contrario”.