Nel dibattito filosofico attuale la coscienza resta per molti ancora un “mistero”, perché ancora inesplicabile risulta essere il rapporto causale tra i meccanismi e le funzioni del nostro cervello e l’esperienza che il nostro io fa di sé stesso come un soggetto cosciente. Come si può spiegare l’emergere da una realtà di tipo fisico e oggettivo (più specificamente neurobiologico) di un fenomeno squisitamente soggettivo, quale è il nostro esser-coscienti, in prima persona, di noi stessi e del mondo? Si tratta di un semplice rapporto di causa-effetto, e quindi di una connessione spiegabile esaurientemente sul piano naturalistico, al pari di ogni altro fenomeno fisico-organico (quali il metabolismo o la riproduzione)? Oppure resta uno iato, una differenza incolmabile tra il piano fisico o cerebrale e quello psichico o mentale?



Senza addentrarci nell’intricata suddivisione delle posizioni in campo, possiamo dire tuttavia che in entrambe queste alternative la coscienza è un mistero in senso sostanzialmente negativo, e cioè indica o l’impossibilità di rendere conto di una realtà inesplicabile (come nei cosiddetti “dualisti”, che tengono ferma la separazione tra le due realtà, quella fisica e quella mentale) oppure, molto più frequentemente, indica la nostra attuale ignoranza su certi processi della causalità fisica, che almeno in linea di principio si deve pensare verrà un giorno colmata grazie allo sviluppo sempre più sofisticato delle nostre tecniche di indagine della natura. In altri termini, il mistero indicherebbe solo un residuo ancora oscuro, il cui destino è quello però di assottigliarsi sempre di più.



Come ha scritto di recente un filosofo della mente, John Searle, «il mistero della coscienza verrà progressivamente rimosso quando risolveremo il problema biologico della coscienza. Il mistero non costituisce un ostacolo metafisico ad una comprensione del funzionamento del cervello; il senso di mistero deriva piuttosto dal fatto che, attualmente, non soltanto non sappiamo come esso funziona, ma non abbiamo nemmeno un’idea chiara di come il cervello potrebbe funzionare per causare la coscienza. Non comprendiamo neppure come sia possibile una cosa simile. Ma ci siamo trovati in una situazione analoga anche in passato» (Il mistero della coscienza, Cortina, Milano 1998, p. 166).



Naturale, dunque, che la questione venga riaccesa dalle ultime rilevazioni da parte di un’equipe anglo-belga di neuroscienziati, e pubblicate sul «New England Journal of Medecine», riguardo a un’attività cerebrale che continuerebbe ad essere esercitata anche in persone che si trovano in uno stato vegetativo persistente, in risposta a determinati stimoli elettromagnetici.

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Ma prima ancora di tutte le inevitabili ricadute che tale rilevazione avrà sulle discussioni bioetiche riguardo alla soglia tra la vita e la morte e al valore della coscienza individuale, essa fa sorgere nuovamente una domanda, e cioè che cosa veramente accade – per esperienza diretta – quando la nostra attività cerebrale, nel corso del suo stesso funzionamento neurobiologico, sempre sollecitata da stimoli esterni e interni, giunge a consapevolezza di sé.

La nostra mente non solo funziona, ma sa di funzionare; non solo risulta essere un effetto di determinate cause neurobiologiche, ma conosce, giudica e valuta questa sua attività. Non si tratta semplicemente di rivendicare “qualcosa” di irriducibile al funzionamento meccanico del nostro cervello, ma di rendersi conto che dentro a questo meccanismo si rende presente qualcosa di inesplicabile e che possiamo chiamare il “soggetto” del meccanismo stesso.

Una volta Agostino d’Ippona – forse il pensatore più “moderno” di tutti i moderni – ha scritto che la mente umana quando giunge a consapevolezza di sé, e cioè quando arriva a porre la domanda sul perché della propria stessa esistenza o sul senso ultimo della propria vita, si imbatte in un abisso – «abyssus humanae conscientiae» (Confessioni, libro X, 2.2) – nel quale l’io scopre di avere in sé la traccia di qualcosa di altro da sé. E non è un caso che Agostino chiami questo abisso della coscienza umana con il nome di “memoria”, che è come una “caverna” profondissima o uno “scrigno” dalla capacità quasi infinita, in cui sono custodite tutte le esperienze, le conoscenze, le immagini, i sentimenti che abbiamo provato nel corso della nostra vita, e di cui non sempre abbiamo coscienza, ma che continuano a riaffiorare dietro l’impulso di stimoli, occasioni e associazioni esterne.

È nella sua memoria, cioè nell’esercizio concreto e naturale della mente, che l’io si ritrova per così dire addosso quella domanda sul perché, ma anche la risposta a tale domanda: ciò per cui siamo fatti è la felicità, ed è il desiderio di essere felici che ci fa capire la stoffa della nostra coscienza. Ma non una felicità qualsiasi, aggiunge Agostino, identificata con questa o con quell’altra soddisfazione naturalistica, ma con una felicità vera, con quella gioia o quel gusto della verità («gaudium de veritate»: libro X, 23.33) che non è altro che il riconoscimento amoroso di ciò per cui vale la pena vivere.

 

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Senza il riferimento, in noi, a qualcosa che – secondo il meccanismo naturale – sarebbe semplicemente impossibile a noi, non si spiegherebbe quel desiderio e quella evidenza della nostra coscienza. In tal modo la coscienza scopre in sé un “mistero”, inteso stavolta non in senso meramente negativo (cioè dovuto soltanto ai limiti della nostra conoscenza), ma in senso “positivo”, starei per dire razionale, quello che indica che noi siamo strutturalmente in rapporto con il motivo per cui stiamo al mondo – e quindi la nostra coscienza non implica solo la funzione, ma anche la ragione del nostro meccanismo naturale, ossia il suo fine.

Il mistero della coscienza di cui parla la filosofia contemporanea della mente può essere così inteso come la coscienza del mistero, che non manca mai di sorprenderci, come l’aspetto più interessante nella natura della nostra mente. È solo alla luce di questa scoperta di un mistero reale nella nostra coscienza che diviene infine sorprendente quella traccia di risposta che si leva dal silenzio “vegetativo” di una mente che sembrava definitivamente addormentata, se non persa a se stessa e al mondo. Non è solo qualcosa che va “oltre” il meccanismo naturale, ma è il suo centro invisibile, il principio operativo di ogni coscienza.