«Quello che colpiva, di Giussani, era lo splendore che aveva negli occhi. Il filo diretto tra gli occhi e il cuore si vedeva, risaltava. Era tutt’uno col suo donarsi continuamente alla vita». Il poeta milanese Franco Loi ha conosciuto don Luigi Giussani nel 1960. A quell’epoca Loi stava facendo ricerche per l’ufficio stampa della Mondadori su alcune nuove figure carismatiche di personalità che attiravano l’attenzione dei giovani. Furono due conoscenti a presentargli il fondatore di Cl.
Franco Loi, come avvenne il suo incontro con don Giussani?
Mia moglie conosceva Cecilia d’Antonio, che nel ’60 era responsabile delle ragazze di Gioventù studentesca di Milano. È stato attraverso di lei che ho incontrato Giussani. Con un amico conosciuto in Mondadori a quel tempo, Ferruccio Parazzoli, volevamo fare una serie di inchieste sui giovani cattolici, socialisti e comunisti e sugli ideali che li muovevano. Incontrai Giussani e dopo di lui don Lorenzo Milani. Volevo, insomma, conoscere quelle persone che guidavano i giovani delle nuove generazioni.
E che cosa ricorda?
Quando lo vidi per la prima volta rimasi impressionato. Accadde vicino all’Università statale, in via Sant’Antonio se non ricordo male. Giussani aveva tenuto una lezione ad un gruppo di giovani. Mi avvicinai a lui accompagnato dai comuni amici. La prima cosa che mi colpì di lui fu quello che si dice, se non sbaglio, il carisma. Da lui veniva un’energia che non avevo mai sperimentato in altri. Fu come se sentissi vibrare, dentro di me, la sua emanazione spirituale.
Lei era cattolico?
No. Venivo dalla politica. Avevo dato le mie dimissioni dal Pci nel 1954, di cui ero stato anche responsabile di una sezione giovanile a Milano, perché c’era un andazzo che non mi piaceva. Problemi, diciamo, che sarebbero diventati evidenti più avanti. Don Giussani e io cominciammo a frequentarci. Le vorrei però raccontare un episodio che riguarda un mio amico di allora, Giulio Trasanna.
Lo scrittore Giulio Trasanna?
Sì. Poeta e scrittore molto noto negli anni ’30, aveva aderito al fascismo, anche se non era fascista convinto, e si professava ateo. Nel periodo di Natale del ’61 ero appena sposato, e invitai don Giussani a casa mia per un cena. C’erano anche altri amici e tra questi Trasanna. Fu una bella serata e si parlò di tutto: di fede, di rivoluzione, di chiesa, di politica. Lì si conobbero. Poi Trasanna, all’inizio del 1962, si ammalò di tumore e finì ricoverato in ospedale. Giussani andò a trovarlo. «Sai – mi disse Trasanna quando andai da lui – avevo torto sulla religione e sulla fede». Si era convertito. Giussani aveva la capacità di mettere l’uomo di fronte alle proprie responsabilità. Di prenderlo per mano e di condurlo di fronte alle cose ultime, a quello che conta davvero nella vita.
Che cosa la colpì del metodo di don Giussani come educatore?
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L’accento sull’io, sulla persona. Giussani diceva già allora, e ha poi sempre ripetuto, che non si capisce Dio se non si capisce fino in fondo che cos’è l’uomo. È vero, e io stesso ne sono convinto ancora oggi. Gesù dice di amare il nostro prossimo come noi stessi, ma se manca l’io cade tutto. Se non si raggiunge la profondità di sé, non si può avere né un rapporto con Dio né un rapporto con gli altri uomini. Come possiamo amare un altro come noi stessi se non sappiamo chi siamo? Sembra scontato, invece è il punto cruciale perché la cultura dominante ha sempre attaccato l’uomo cercando di smantellare la coscienza di sé.
Secondo lei perché don Giussani è stato così persuasivo per tanti giovani?
Per via dello sguardo nuovo con cui riusciva spalancare le porte della propria e dell’altrui umanità. Cristo è venuto per questa mia umanità. Giussani era un uomo del fare, del muoversi nella vita. Ma sempre con la premessa di conoscere se stessi, altrimenti il rapporto con Dio «salta». Si riduce al più ad un rapporto con l’idea di Dio, ma non con Dio. Quando uno ha questo rapporto, diceva don Giussani, fa, agisce diversamente. Fate, esortava i giovani don Giussani; amate concretamente, vivete, e il fare vi aiuterà a crescere. Il fare fa imparare all’uomo qualcosa di sé, oltre che delle cose con cui lavora. È solo così che il rapporto con l’esterno non diventa un mero rapporto di uso, ma un rapporto reciproco di conoscenza.
Lei una volta ha detto che don Giussani era un poeta. Cosa intendeva dire?
Poeta, Giussani, lo era intimamente. La parola in lui era fondamentale: usava la parola in modo poetico, non intellettuale. Invece di usare termini difficili e dire cose che sono il prodotto di una lettura di libri, Giussani faceva sgorgare quel che diceva da se stesso e dalla sua esperienza di vita. Poiein, in greco, è fare. Il fare di Giussani era poetico perché era un fare spirituale, che muove dallo spirito e che tende a edificare lo spirito. Cresceva i ragazzi nella libertà. Per questo a volte mancò una sintonia, nel metodo, tra lui e la chiesa del suo tempo.
Giussani non ha mai smesso di ripetere una frase che aveva sentito da suo padre: «si può stare un giorno senza pane, ma non si può stare un giorno senza bellezza».
Certo. L’uomo vede e ama lo splendore interiore che emana dal di dentro di ogni essere. È quella la vera bellezza, spirituale, profonda. Non è l’esteriorità. Pensiamo a una rosa: è forma, aroma, colore. Ma perché ci attrae quella rosa lì? Le rose sono tante, ma ce ne attrae una, e quella che ci attrae è come se brillasse e fosse «per» noi. È questa la bellezza di cui ha sempre parlato don Giussani. E solo se amiamo questa bellezza possiamo amare in fondo ciò che ci unisce.
Lei cosa trattiene, ancora oggi, del suo rapporto con lui?
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Lo splendore che Giussani aveva negli occhi. Esso esprimeva molto di più di tutto il suo sapere – ed era una persona colta. Il filo diretto tra gli occhi e il cuore si vedeva, risaltava. Era tutt’uno col suo donarsi continuamente alla vita.
Era questo il carisma che la colpì al vostro primo incontro?
No, il suo carisma era un’altra cosa ancora. Una spiritualità talmente realizzata che tutto il suo essere emanava questa vibrazione d’amore. Come se l’intera sua persona fosse spiritualmente vibrante. Solo qualche santo può aver avuto questa realizzazione piena del proprio essere al punto in cui, secondo me – ma posso anche sbagliarmi – era in don Giussani.
Secondo lei che cosa ha dato don Giussani alla Chiesa di oggi?
Il fare, stando in mezzo alla gente. Una volta – al di là della personalità di Giussani – sia il partito comunista sia la chiesa cattolica erano in mezzo alla gente. È per questo che la società era migliore. Entrambe, l’ideologia e la fede, facevano un’azione di elevazione delle persone perché tutti erano in rapporto continuo, vitale con esse. In quel periodo la gente aveva attorno a sé uomini che parlavano alla sua anima. Giussani era uno di questi. Sembra scontato: a chi deve parlare un prete se non all’anima? Invece non è così. Sa perché secondo me Giussani è riuscito a fondare il suo movimento a Milano?
Perché?
Milano, con Torino, era la città operaia più importante d’Italia. La gente che lavora, che fa con le mani, ha un atteggiamento positivo e aperto nei confronti della vita e cresce spiritualmente, in modo indipendente dall’impulso ad agire bene. Oggi invece la gente non si incontra, si evita. E tutto congiura a sminuire un’esperienza reale. Ecco perché il carisma di Giussani è ancor più necessario oggi: lui andava là dove la gente vive, opera. Ed era capace di guardare l’uomo dal di dentro.
(Federico Ferraù)