È molto frequente imbattersi, nella letteratura o nell’arte cinematografica, in raffigurazioni acute e anche struggenti del nichilismo contemporaneo, quella condizione per cui sembra offuscarsi il significato di sé e del mondo, e la nostra coscienza vien presa da una sorta di disagio, come una perdita della ragione e del gusto di vivere. Ma il più delle volte tale condizione è vista come una patologia da cui non è più possibile guarire veramente, di fronte alla quale potremmo escogitare strategie di evasione o tecniche di dimenticanza, o terapie di contenimento – come quelle legate al moralismo o al legalismo –, senza riuscire però a superare realmente il dramma dell’insignificanza, cioè senza arrivare a dare risposta a quell’assenza del vero e del reale a cui sembra destinata la coscienza contemporanea. E in alcuni casi (quelli più comuni e a volte più di successo) prendendo questa perdita con la “gaia” certezza (per usare una parola di Nietzsche fatta propria dal pensiero “post-moderno”) che in fondo si tratterebbe di un’emancipazione dai vecchi spettri della metafisica e della religione, che finalmente non ci opprimerebbero più con le loro insensate domande, e mostrerebbero semplicemente il carattere assoluto, insuperabile della nostra finitezza.
Ma ci sono dei casi – pochi, a dire il vero, ma straordinari – in cui il nichilismo non è considerato semplicemente come una patologia da curare con i rimedi dell’analisi, della rimozione o del volontarismo, bensì è riconosciuto come una risorsa segreta e difficile del nostro essere uomini, vale a dire la domanda insopprimibile di un significato vero e oggettivo per l’esistenza. In questa diversa prospettiva nel guardare il fenomeno nichilistico, ciò che viene in primo piano, nella coscienza di una perdita, è il bisogno più radicale del nostro intelletto e del nostro affetto, quel bisogno che non resta mai come un labile vapore nel nostro intimo, ma dà prova di sé determinando in una maniera o in un’altra tutti i nostri gesti, i nostri tentativi e i nostri impegni di uomini in carne ed ossa nella storia e nella società. In una parola: il nichilismo può essere visto come l’occasione favorevole per comprendere che gli uomini non si salvano da sé stessi, ma solo per qualcosa di altro, più grande di sé, che essi stessi però non possono produrre con le loro teorie o le loro decisioni, ma solo attendere, scrutare e accogliere (o naturalmente rifiutare).
Di alcuni di questi casi straordinari parla un aureo libretto scritto da Tiziana Liuzzi, appena uscito presso le baresi “Edizioni di Pagina”, dal titolo Viaggio in Inghilterra, con il significativo sottotitolo L’Occidente al crocevia del nichilismo: Virginia Woolf, Chesterton, Tolkien. Si tratta della raccolta di cinque conversazioni che l’autrice ha tenuto tre anni fa presso il “Centro Culturale di Bari”, in cui il problema del nichilismo è affrontato alla luce dei tentativi e delle reali possibilità di un suo “superamento”.
Ma si tratta di un superamento che non è mai di tipo ideologico e rifugge al tempo stesso da ogni demonizzazione a buon mercato: al contrario, si tratta di un viaggio affascinante attraverso alcuni momenti emblematici della tradizione inglese, in cui più si avverte la sfida e la posta in gioco del nostro tempo. Come scriveva la Woolf nel 1939, le nostre giornate sono avvolte dal non-essere come «una sorta di ovatta senza contorni», e tutto il problema dell’esistenza consiste nel cogliere i momenti in cui le cose si fanno trasparenti e «la penna trova la traccia», quei «momenti di essere» in cui all’improvviso, per un evento che ci sorprende o ci assale, il fondo dell’essere diviene visibile e «la poesia diviene realtà». Si può capire allora che «esiste un disegno dietro l’ovatta».
Virginia Woolf testimonia in maniera vertiginosa, attraverso il lavoro della scrittura, l’acutezza di questa domanda di essere, di questo bisogno di realtà, che trafigge ogni resa e anima nascostamente ogni scontento, riaffermando ogni volta di fronte al «nulla» la «festa della vita». Seguendo il filo della narrazione come principio di comprensione del nichilismo, Liuzzi propone poi un’originale lettura dell’opera di un grande contemporaneo della Woolf, G.K. Chesterton, che nella sua «filosofia delle fiabe» mostra quel filo come una traccia che può portarci al centro nascosto del «labirinto». Qui l’io ritrova il suo volto misterioso dietro le contraffazioni di tutte le analisi che puntano sull’inconsistenza e sulla «negatività» di sé e della realtà, scoprendo nel mondo incantato della fiaba la raffigurazione di quello che il Cristianesimo ha portato come principio culturale nuovo, vale a dire il rapporto inscindibile e paradossale tra il calcolabile e l’incalcolabile, tra il meccanico e il gratuito, tra l’incanto e il disincanto, o se si vuole tra il mondo e Dio.
E sarà attraverso la lettura di un altro importante autore fiabesco, J.R.R. Tolkien (per il quale però la fiaba rappresenta la vera realtà), che si radicalizzerà questa visione del nichilismo come dramma permanente della libertà umana, luogo in cui l’io è sempre di fronte a un abisso inevitabile, cioè alla decisione se riconoscere e aderire alla positività imprevedibile delle cose o negarla e prendere congedo dall’essere.
Il libretto contiene anche due capitoli su altrettanti film (anch’essi inglesi), visti come documentazione di questa particolare ermeneutica del nichilismo, vale a dire Quel che resta del giorno, di James Ivory (tratto dal bel romanzo di Kazuo Ishiguro) e 84, Charing Cross Road, di David Jones, tratto da un carteggio tra la scrittrice americana Helene Hanff e un semplice impiegato in una libreria antiquaria di Londra. In entrambi risuona l’interrogativo che più sta a cuore all’autrice: il nichilismo è il nostro destino o è una via, paradossale quanto inaspettata, per riscoprire che il destino del nichilismo è l’evento sorprendente dell’essere?