Ci risiamo. Il 24 febbraio, tre dirigenti di Google Italia sono stati condannati in seguito alla pubblicazione di un filmato di pessimo gusto, che raffigurava il maltrattamento di un ragazzo disabile. Il filmato è stato caricato su Google video. Da qui l’accusa di mancato rispetto del codice italiano sulla privacy, finita con la condanna degli accusati.



La condanna ha sorpreso molti, e sta riempiendo i giornali e i blog di commenti adirati. Infatti, sembra essere una condanna non solo di tre persone, che forse potevano e dovevano fare di più. E’ anche una condanna del modo più comune di pensare alla rete. Nel comunicato emesso da Google, disponibile a http://googleitalia.blogspot.com/2010/02/una-grave-minaccia-per-il-web.html dopo una difesa dignitosa dei loro uomini, si legge questa frase: «C’è un’altra importante ragione, però, per la quale siamo profondamente turbati da questa decisione: ci troviamo di fronte ad un attacco ai principi fondamentali di libertà sui quali è stato costruito Internet».



Al di là del caso giudiziario, che ora andrà in appello, mi sembra un momento opportuno per guardare questi «principi fondamentali di libertà». In gioco è nientemeno che la stessa vacca sacra: la cosiddetta neutralità del mezzo. La contraddizione è evidente. Da una parte, la privacy. E’ inaccettabile che un filmato di questo genere venga fatto e distribuito in qualunque modo. E, ovviamente, nessuno mette in discussione questo. La eliminazione del pudore non è arrivata a rendere socialmente accettabile la crudeltà ostentata verso gli indifesi.

Dall’altra parte, il diritto d’impresa, legato al non ben definito status giuridico di Google (è un editore? Un pubblicitario? Una “autostrada”?). Effettivamente, è molto difficile immaginare, se restiamo dentro le categorie di “neutralità” e di “libertà” in uso, che cosa potevano fare di diverso i tre poveri dirigenti condannati. Non hanno mica fatto loro il filmato, e quando è stato segnalato alla loro attenzione l’hanno tolto.



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Forse potevano essere più celeri? Può darsi, ma questo è un dettaglio. Se si vuole mantenere Internet come spazio senza regole, come Wild West, come anarchia che si spera invano auto-regolante, si dovrà accettare che, almeno per il tempo necessario per segnalarli e rimuoverli, contenuti sconci siano visibili. Questo è il prezzo del “mezzo neutrale”. Se, invece, si ritiene che ci sia un diritto della persona alla privacy, a non essere sputtanato davanti ai circa 3 miliardi di internettari, in attesa (breve o lunga che sia) della rimozione del contenuto inappropriato, si dovrà accettare una qualche regolamentazione. 

 

Si potrà discutere come farlo, ma è la conclusione obbligata se si vuole mantenere il principio di responsabilità personale di fronte alla privacy altrui. In attesa di dichiarare la mia personale posizione, vorrei porre un interrogativo. Sono gli uomini che fanno la tecnologia, o è la tecnologia che fa gli uomini? Lo chiedo perché una delle critiche più frequenti alla regolamentazione di Internet è che ciò equivale alla sua soppressione: “Internet regolamentato è come una macchina senza ruote”. 

 

E’ un destino ineluttabile che Internet continui ad esistere così come esiste oggi? E’ lo stesso modo in cui a volte si parla dell’economia, come se non fossero gli uomini che comunque governano le nazioni e le aziende, e che comprano i prodotti. Come se ci fosse davvero una “mano invisibile” a cui siamo tutti soggetti. Come se la libertà, quella vera, non esistesse.

Ma è un bene per gli uomini che Internet sia concepito così? Mi pare che è qui il punto. Non la difesa di uno schema acquisito, bensì la riflessione su ciò che è bene per gli uomini, per le donne, e soprattutto per gli indifesi: i bambini, gli sfruttati, le sfruttate, i disabili… Prossimamente, due piste di lavoro per affrontare questa domanda. Prima, una riflessione sui termini “bene” e “neutralità” assieme al grande pensatore Hans Urs von Balthasar. E poi uno sguardo sinottico a ciò che Josef Ratzinger ha scritto e detto sul tema.