L’inizio di ogni nuovo anno viene salutato con l’omaggio dei più svariati calendari che accompagnano poi, con la memoria di chi li ha offerti, lo scorrere dei mesi; quest’anno l’Associazione “Giovanni Testori” ne ha prodotto una versione particolare: le dodici pagine che lo compongono presentano altrettante riproduzioni di opere di Caravaggio commentate con le parole di Roberto Longhi.



Una fortunata coincidenza vuole che a Padova proprio in questo periodo sia in corso presso i Civici Musei la mostra Caravaggio, Lotto, Ribera – quattro secoli di capolavori dalla Fondazione Longhi, aperta fino al 30 marzo prossimo.

In un campionario ridotto (circa una cinquantina di pezzi), ma suggestivo, la mostra pone a confronto alcuni capolavori della collezione Longhi e la pinacoteca dei Musei Civici agli Eremitani, dove si conservano le opere degli artisti veneti prediletti dallo storico dell’arte.



Sono esposte opere appartenenti a periodi diversi: a partire dal Duecento, per  toccare poi  il Trecento, con esempi della pittura bolognese, e arrivare agli scambi culturali fra i maggiori centri artistici italiani tra Quattro e Cinquecento rappresentati da un gruppo di maestri come Dosso Dossi, Lorenzo Lotto e Lambert Sustris. Seguono le pitture del Seicento, fra le quali sono presenti il celebre Fanciullo morso dal ramarro del Caravaggio e le tele di Ribera, del Borgianni, del Valentin e di Mattia Preti.

Tali iniziative rendono doveroso omaggio a Roberto Longhi, personalità che ha inequivocabilmente cambiato il modo di leggere la storia dell’arte e fare critica d’arte; ma offrono anche l’occasione per riflettere su scelte e giudizi artistici dello studioso che spesso erano controcorrente rispetto alla cultura dominante; possiamo così raccogliere preziosi suggerimenti per avvicinarci in modo non banale e scontato al nostro ricco patrimonio artistico.



Volendo innanzitutto sottolineare il peso storiografico e critico prodotto dalla ricca attività di docenza, saggistica, organizzazione di eventi di Roberto Longhi, ci riferiamo alle sue stesse parole tratte dall’introduzione, scritta nel 1956, del primo volume delle Opere complete dedicato agli scritti giovanili: negli anni in cui il suo lavoro di critico “prendeva con grande piglio il suo avvio, storia e critica d’arte procedevano disgiunte. La ricerca storica durava in un indistinto carattere tra archivistico e informativo, puramente nozionale; la critica, specialmente d’arte moderna, non aveva alcun sentore del grande rinnovamento artistico europeo del cinquantennio precedente”. Da questa analisi egli affermava la necessità di giungere a che “la critica coincidesse con la storia”.

Questa operazione ha implicato la necessità di liberare la lettura delle opere d’arte da categorie estetiche canoniche, e dagli schemi – pensiamo ai numerosi ‘ismi’ dell’arte contemporanea – che, se hanno una indubbia utilità didattica, nel contempo irrigidiscono in modo spesso ideologico la considerazione dei prodotti artistici.

 

Longhi praticava, ed insegnava ai suoi allievi, un preliminare rigoroso lavoro filologico che mirava a un attento inquadramento storico, e a un profondo scavo per la ricostruzione delle singole personalità, con il sostegno di una sicura documentazione; ad esso era associato l’esempio di un incontro diretto con l’opera, vivo ed esperienziale, non accademico.

La passione per il mondo dell’arte come luogo di continua scoperta portò all’arricchimento progressivo della sua raccolta personale di oggetti artistici acquisiti nei frequenti viaggi di ricerca.

Longhi più volte aveva dichiarato di non voler definire “collezione” ciò che aveva acquistato, ma semplicemente “raccolta”; essa era frutto della sua passione coltivata fin dagli anni giovanili e strumento di lavoro ed esercizio critico per sé ed i suoi allievi.

Molti acquisti favorevoli furono fatti proprio in virtù del suo interesse di studioso ed appassionato nei confronti di opere che solo molto tempo dopo furono riconosciute dalla critica e dall’opinione pubblica nel loro legittimo valore.

Alla sua morte nel 1970 per volontà testamentaria ha lasciato “per vantaggio delle giovani generazioni” la collezione d’arte, la fototeca (70.000 fotografie) e il patrimonio documentario e librario (36.000 volumi) oggi custoditi nella villa fiorentina “Il Tasso” dove ha sede la Fondazione che porta il suo nome.

Alla sua geniale sensibilità si deve il merito di aver avviato alcune decisive operazioni critiche che hanno portato alla riscoperta di artisti o ambiti culturali tradizionalmente considerati secondari, tra cui: la stagione tardogotica bolognese; il ruolo centrale di Piero della Francesca nella pittura del XV secolo; il Rinascimento ferrarese, il Rinascimento dell’area veneto – lombarda e in genere dell’Italia settentrionale quali anime alternative al Rinascimento fiorentino; artisti italiani degli anni ’30 del Novecento, primo tra tutti il solitario Giorgio Morandi cui fu legato anche da una grande amicizia.

In particolare Roberto Longhi fu anima e protagonista della rivalutazione della figura di Caravaggio come grande rivoluzionario del realismo così come oggi è comunemente riconosciuto. Da qui egli ha anche costruito la prima struttura storiografica della cerchia dell’artista lombardo, e della grande stagione dei caravaggeschi, anche nordici.

 

 

L’insieme dei suoi interventi critici non si è costruito secondo linee guida sistematiche, e non mancano prese di posizioni che possono sembrare eccessive, ma non sono mai fuorvianti, perché inducono, nella loro imprevedibilità, a una comprensione più profonda dell’opera d’arte. Seguendo il filo della sua ricerca, delle sue osservazioni, delle sue scelte, lo sguardo viene sospinto a penetrare, oltre le apparenze, nel cuore della testimonianza artistica là dove essa cessa di essere esercizio formale e diventa esperienza vissuta: e si comunica, quasi per osmosi, dall’artista allo spettatore.

In un’espressione sintetica e significativa così Longhi individua la grandezza di Caravaggio: «egli suggerì un atteggiamento, non definì regole formali». Nella predilezione per il pittore Giorgio Morandi ne indica il valore con queste parole: «Mi parve di intendere che Morandi si mettesse in difesa dovunque vedeva pungere anche un sospetto di eloquenza, di turgidezza, di agitazione, di retorica della violenza fisica, della forza, del titanico, del capaneico e simili» (Dalla prefazione alla mostra fiorentina di Morandi, 1945)

Scrive, il nostro autore, nelle pagine de L’arte italiana e l’arte tedesca, anno 1941: «L’arte non è istituzione convenuta, ma libera produttività interna. La sua storia, una storia di persone prime: gli artisti».

In questa prospettiva è possibile che l’arte diventi per ognuno, non solo per gli esperti, occasione di incontro reale, confronto e approfondimento di esperienza umana che supera i confini del tempo e delle epoche storiche, perché sempre attuale nel suo cuore.