Fu alla curva davanti a quel paesaggio tante volte contemplato: discende un valloncello e poi c’è una collina che monta e che ha sulla cresta, lungo tutto il suo arco, proprio sulla cima, una fila di alberi distanti tra loro pochi metri. Si vedono sorgere dalla terra, salire col fusto, le braccia dei rami, il tremolio delle foglie e il cielo è intrecciato a loro sin dalle radici, tra i fusti, i rami, le foglie. È come se il celeste conversasse con le piante, in intimità, e intanto si eleva maestoso. Le piante hanno intorno soltanto cielo; sono abbracciate da quello. È un paesaggio che sempre mi commuove.



È lo sguardo di Mario Tobino al paesaggio che circonda il manicomio di Magliano, in provincia di Lucca, a pochi mesi dalla pensione, dopo che quel luogo di follia era stato la sua casa, oltre che il luogo della sua professione di psichiatra, per quarant’anni. Lo scrittore, nato a Viareggio nel 1910, dedicò tutta la sua vita, a parte il servizio militare in Libia, ai matti, come amava chiamarli senza eufemismi. Non si sposò mai e abitò in due stanze del manicomio. Due le scrivanie: una per le cartelle cliniche, l’altra per il suo lavoro di scrittore, in cui i freddi documenti si animavano di poesia, di denuncia, di compassione. Nascono qui i suoi romanzi più belli e più amati dal pubblico. Per le antiche scale, Le libere donne di Magliano, Gli ultimi giorni di Magliano.



Combatte la sua battaglia solitaria contro «Psichiatria democratica», che nega alla follia diritto di cittadinanza, relegandola a semplice prodotto della società capitalista, privandola della sua componente biologica e misteriosa. L’infermiere Scipioni lo sprona: Ma lei perché non li difende questi abbandonati? Perché non ne scrive sui giornali, perché non gliela dice chiara, che basta con le mode, li lascino in pace questi qui, anche loro sono creature umane, li lascino tranquilli, questa è la loro casa.

 

Allora Tobino cerca alleati, scrive. Isolato come retrivo, assiste al graduale smantellamento del manicomio, all’abuso degli psicofarmaci, all’abbandono di tanti malati sul territorio, alla loro morte senza alcuna assistenza. E deve cedere all’avvento della legge 180: l’ideologia è più forte e non chiude solo i manicomi, impedisce quella compassione, quella vita comune in cui il dolore viene arginato e seguito giorno dopo giorno.



Nascono dall’indignazione e dalla tenerezza di Tobino le storie vere di tanti matti, celate sotto il velo del segreto professionale, guardati con gli stessi occhi con cui guarda il paesaggio collinare: tronchi di vite umane intrecciati con l’azzurro del mistero, che prende spesso i toni cupi delle allucinazioni, delle fobie, della malinconia, ma vede talvolta anche il miracolo della remissione o della lenta risalita dal fuoco delle crisi. Tutto questo è il materiale dei libri in cui viene documentata la dedizione degli infermieri e delle suore, dei medici e del personale, i loro errori, le loro liti, le loro diversità nell’assistenza dei pazienti.

Ma la protagonista è la malattia mentale, una per ogni malato, imprevedibile e, violenta o sedata, sempre impenetrabile.