Lucia dopo il voto fatto alla Madonna di non sposare Renzo viene ospitata nella casa di donna Prassede e di don Ferrante.

Era donna Prassede una vecchia gentildonna molto inclinata a far del bene: mestiere certamente il più degno che l’uomo possa esercitare; ma che pur troppo può anche guastare, come tutti gli altri. Per fare il bene, bisogna conoscerlo: e, al pari d’ogni altra cosa, non possiamo conoscerlo che in mezzo alle nostre passioni, per mezzo de’ nostri giudizi, con le nostre idee; le quali bene spesso stanno come possono. Con l’idee donna Prassede si regolava come dicono che si deve far con gli amici: n’aveva poche; ma a quelle poche era molto affezionata. Tra le poche, ce n’era per disgrazia molte delle storte; e non eran quelle che le fossero men care.



E così la poveretta viene aiutata nel doloroso tentativo di pensare meno a Renzo dalla volonterosa benefattrice, la quale, convinta che il giovane sia uno scapestrato, tutta impegnata dal canto suo a levarle dall’animo colui, non aveva trovato miglior espediente che di parlargliene spesso.

Buon per lei, che non era la sola a cui donna Prassede avesse a far del bene; sicchè le baruffe non potevano esser così frequenti. Oltre il resto della servitù, tutti cervelli che avevan bisogno, più o meno, d’esser raddrizzati e guidati; oltre tutte l’altre occasioni di prestar lo stesso ufizio, per buon cuore, a molti con cui non era obbligata a niente: occasioni che cercava, se non s’offrivano da sé; aveva anche cinque figlie; nessuna in casa, ma che le davan più da pensare, che se ci fossero state. Tre eran monache, due maritate; e donna Prassede si trovava naturalmente aver tre monasteri e due case a cui soprintendere: impresa vasta e complicata, e tanto più faticosa, che due mariti, spalleggiati da padri, da madri, da fratelli, e tre badesse, fiancheggiate da altre dignità e da molte monache, non volevano accettare la sua soprintendenza.



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Manzoni lascia tra il capitolo 25 e 27 de I promessi sposi un ritrattino tra i più felici, anche se non tra i più noti, di un costume molto diffuso in ogni tempo, quello delle corte vedute nei pensieri, della mancanza di avvedutezza nelle parole e nelle azioni, dell’intenzione a fare il bene a modo proprio. Come non riconoscersi, anche se non si vive nel Seicento e non si è nobildonne?

La consueta simpatia con cui l’autore guarda i suoi personaggi spunta le armi di una cattiva ironia che stigmatizza soltanto e non fa riflettere e vigilare sulle proprie abitudini mentali e pratiche. Non a caso i testi biblici e i grandi autori della tradizione cristiana spesso mettono in guardia dalla vana curiosità, invitano a porre un freno alle parole e ad agire con prudenza nei confronti di situazioni concrete, la cui realtà è celata dall’apparenza.



È più facile di quanto non si creda essere intriganti, nel senso più proprio e non malamente traslato con cui questa parola oggi viene usata. Ma è anche possibile imparare, dai difetti propri e altrui, la virtù della discrezione.