L’antefatto della storia che vogliamo raccontare è la nascita di quella che poi divenne la confraternita di S. Maria del Gonfalone, scaturita dai devoti della città di Roma verso la fine del secolo XIII, in un momento in cui il culto della Vergine stava conquistando la sua centralità nel cuore della pietà collettiva del tardo Medioevo.
Il nuovo sodalizio raggiunse un largo seguito tra i fedeli e si consolidò anche nelle sue basi finanziarie. Alle funzioni liturgiche e alle attività educative e assistenziali tipiche delle compagnie religiose laicali, allora in via di straordinaria diffusione in tutta l’Europa cristiana, fu presto affiancato l’uso di rappresentare, nelle maggiori solennità, emozionanti drammi sacri aperti all’intera cittadinanza. Quello più grandioso era il dramma della passione e della resurrezione di Cristo che ogni Venerdì Santo la confraternita interpretava all’interno del Colosseo, di fronte al vasto pubblico del popolo romano, in quello che era stato uno dei teatri del martirio cristiano dei primi secoli.
Per tale occasione, veniva allestito nell’antico anfiteatro imperiale un palcoscenico coperto da tendaggi neri, sul quale erano distribuiti i diversi luoghi dell’azione scenica: in alto il Paradiso, con le nuvole dipinte messe in moto da ingegnosi meccanismi e un apparato nascosto capace di illuminarlo a giorno in un baleno; poi il monte delle croci, Betania, il monte Oliveto, il sepolcro, l’Inferno, il tempio di Gerusalemme, i diversi tribunali, l’albero dell’impiccagione di Giuda. Gli attori indossavano vesti eleganti e di colori sgargianti, quando necessario impreziosite da gioielli sontuosi. Dopo la resurrezione, Gesù e gli apostoli cingevano il capo con diademi d’oro fino. Per i soldati c’erano trombe e bandiere; ali e camici bianchi per il nutrito drappello degli angeli.
Del testo che veniva recitato sono rimaste diverse versioni, ognuna delle quali è un rimaneggiamento di altre anteriori. Il testo non era cristallizzato in un’unica forma fissa. Ogni anno lo si poteva più o meno ampiamente ritoccare, in base alla sensibilità del momento o al gusto degli interpreti. Ogni volta doveva essere fatto “rivivere”. La consuetudine si mantenne intatta fin verso il 1558, quando la rappresentazione del Colosseo, intaccata dal nuovo clima religioso che andava maturando, con l’avanzata del rigore austero della prima Controriforma, cadde in abbandono. Il ceto aristocratico e l’alta élite ecclesiastica preferirono rimarcare le distanze che li separavano dalla base popolare e tagliarono i punti di contatto con il rituale più esuberante della religione cittadina.
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Ma la fama del teatro sacro del Colosseo era ormai dilagata per tutta Italia. Il suo copione si impose come la traccia più sicura per le rievocazioni scenografiche della passione che nei più diversi luoghi altre confraternite, gruppi religiosi o intere comunità di abitanti continuarono ad allestire quando si riaprirono gli spazi per una creatività in cui i contenuti del cerimoniale della Settimana Santa si riversavano in uno spettacolo che esaltava la memoria dei misteri culminanti della storia della salvezza, trasformandoli in un toccante catechesi fatta di gesti contemplati e di sferzanti immagini visive. Ristrascritta manualmente senza posa, ristampata in innumerevoli edizioni, la passione del Colosseo vide rinsaldarsi la sua autorevolezza nel corso del Seicento, del Settecento e così pure nel secolo successivo. Ancora oggi il suo canovaccio poetico costituisce la trama su cui gli abitanti di Sordevolo, nei pressi di Biella, periodicamente ridanno vita alla passione di Gesù, con il loro teatro popolare radicato nella tradizione della comunità.
L’ostinata persistenza di un omaggio alla fede religiosa che ha attraversato i secoli dell’età moderna è di per sé un invito risoluto a immergersi nell’universo di emozioni e di affetti di cui esso è la punta più clamorosa. Dobbiamo soltanto riuscire ad andare al di là della patina di un italiano reso oggi antiquato dall’usura del tempo. È l’unica cosa che occorra per rimettersi in sintonia con il suo spirito di fondo: ritrovarlo come un fervore palpitante sotto il mantello di cenere che lo ha avvolto. Per fare questo, basta riprendere in mano la preziosa riproposta che ne ha fornito Vincenzo De Bartholomaeis, nella sua ricca raccolta di Laude drammatiche e rappresentazioni sacre, alla metà del secolo scorso (volume II, Firenze 1943, pp. 154-196). Basta la semplicità di un ascolto.
E allora si può tornare a cogliere che l’attenzione esasperata fino ai minimi dettagli, dentro il realismo di una grande azione corale, aveva in primo luogo lo scopo di riattualizzare il fitto intreccio di vicende da cui si era sprigionato il dono della redenzione. Tutto era ripercorso dall’inizio alla fine, aderendo con millimetrica precisione alla fisicità di una storia in cui si era chiamati a immedesimarsi, divenendone attori protagonisti. I fatti dovevano essere ostentati in tutta la loro forza patetica, coinvolgente al massimo grado, come se dovessero riaccadere ogni volta di nuovo. Si tornava a salire, sulla scia dei passi di Cristo, lungo la via della croce. Il “sacro legno” era di nuovo innalzato come vessillo di liberazione dal male. L’universo intero applaudiva al ritorno della vita nuova spalancata dal miracolo di Cristo risorto, reso per sempre presente in mezzo alla storia degli uomini, giudice misericordioso che li attende alla fine della loro avventura nel mondo. Insieme, si era chiamati a rivivere il prodigio della carità suprema di un Dio che ha avuto pietà del nostro niente, assumendo su di sé il peso di ogni colpa, lui più di chiunque altro innocente.
Al centro del dramma, stava il cuore dell’uomo che rispondeva all’amore di un altro cuore più grande: quello trafitto della Misericordia divina che, stillando l’acqua e il sangue della salvezza, aveva riaperto le porte della speranza per tutti.
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Da: “La passione e resurrezione del Colosseo”, in V. De Bartholomaeis, Laude drammatiche e rappresentazioni sacre, vol. II, Firenze 1943, vv. 319-384.
Appiccatosi Giuda, i diavoli lo portano; e i farisei dicono a Pilato, vedendo che non si risolve:
Pilato, se costui non muor, ti dico
Che suvverti tutta la giustizia;
Ancor sarà di Cesare nemico,
Se di costui non danni la malizia;
Chi Re si fé tu sai, ché questo è vero,
Che contradisce al nostro sacro impero.
Vedendosi Pilato astretto dalli Farisei, dice:
Io son forzato ormai di consentire
A vostra volontà cruda e feroce;
Presto si debba ognun di qui partire
E Giesù Cristo muora in su la croce;
Poiché ciascun di voi sarà contento,
Mora fra due ladron con grave stento.
Dopo che Pilato ha sentenziato, i farisei dicono:
Pigliatel, cavalier, su, carne, carne!
Ché così vuol Pilato che si faccia!
Ché intendiamo di questo saziarne;
Orsù, cavaliero, spaccia, spaccia!
Più non potrà costui, con sua malizia,
Far che non si eseguisca la giustizia.
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Il cavaliere fa portare la croce a Cristo:
Ecco, Giesù, la catedra Reale
Dove deve seder tua Celsitudine;
Sopra di questo alto tribunale
Ragion farai alla tua moltitudine;
Or sottoponi a questa ormai le spalle
Che noi ti seguitiamo per tal calle.
Cristo si inginocchia ed abbraccia la croce:
O croce santa, dolce mio sostegno,
Dove che col morir trovarò vita;
Arbor da Dio eletto sacro legno,
O ardor di virtù, bontà infenita,
Scala del Ciel e mio desir acceso,
Sostieni volentier tuo dolce peso!
Il cavaliere dice a Cristo:
Non più parole! Su, prendi il camino
Verso il solito luogo di giustizia!
Convienti andar per forza, a capo chino,
Non ti val simular tanta tristizia.
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Il Cavaliere si mette in via, menando Cristo con la croce in collo, e cascando [lui] in terra, [egli] dice:
Pietà, pietà. oimé, ch’io son sì stanco
Onde cader mi sento e venir manco!
Il centurione trova Simon Cireneo, e dice:
Simon Cireneo, deh, ferma il passo,
Aiuta questo pover sventurato;
Per troppo carco egli è sì stanco e lasso
Che più non può quel corpo lacerato;
Acciò che muora in croce il temerario,
Fa che non sii al mio voler contrario.
Camminando Cristo verso il monte Calvario incontra la Veronica, dice:
Donna. se hai pietà, ti vo pregare,
[perciò] che mesto sono e pien d’affanno,
Tal dolor sento che mi fa sudare:
Onde per carità prestami un panno.
La Veronica, dando il panno a Cristo, dice:
Ecco, Signor, il panno ch’io tel dono
E d’ogni mio fallir chieggo perdono.
Cristo pigliò il panno ed asciugossi il viso; poi lo rese alla Veronica, dove per miracolo lasciò la sua figura; la Veronica, mostrando il velo impresso, dice:
Popol, guardate e ponete ben cura
Se questo è santo, giusto e ver Signore,
Che in questo panno sua santa impressura
Lasciato ha di suo viso ogni colore;
Vedendogli sudar sua faccia pura
Gli porsi il panno, ed ecco sua figura.
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Il popolo grida “Misericordia”. Ed intanto Cristo arriva sul monte Calvario. Spogliato ignudo, sopra la croce in ginocchioni, dice:
Accetta, o Padre Eterno, il sacrificio
Di me, tuo figlio unico e diletto,
E per tal ostia sii anco propizio
All’uom, che purgar possa il suo difetto,
Acciò col sangue mio sue colpe lavi
E poi nel Ciel trovi ambedue le chiavi.
Cristo avendo fatto l’orazione, li farisei dicono al Cavaliere e ministri:
Non gli date più tempo di pregare!
“Orsù, mettilo in croce!” ciascun grida,
E vedremo se, con quel suo chiamare,
Potrà far che la morte non l’uccida,
Con fargli ben intender quanti ostacoli
Ci sono ad esser santo e far miracoli.
Gli ministri attendono a metter Cristo in croce. Intanto li Cori cantano.
Primo coro de’ pastori
[…]
Secondo coro delli re
[…]
Cantato ch’hanno li cori, San Giovanni s’avvia per portare la nuova alla Madonna.