C’è un’ode di Orazio, la quarta del primo libro, che celebra l’atteso ritorno della primavera dopo i rigori dell’inverno e che è oggetto di ammirazione per tutti coloro che amano la poesia. Essa è costruita con un gioco sapiente di parallelismi e di contrasti, descrive il paesaggio e la ripresa del lavoro umano, evoca la vita segreta degli dei e la gioia che lentamente invade la natura.



Si scioglie l’aspro inverno, con il gradito ritorno della primavera

e del Favonio, mentre gli argani traggono di nuovo in mare

le barche asciutte e il bestiame non prova più gioia della stalla,

né il contadino del focolare e i prati non sono più candidi di brina.

 

Già Venere Citerea conduce le danze alla luce della luna



e le Grazie armoniose, unite alle Ninfe, danzano con ritmo

alterno, mentre l’ardente Vulcano visita le faticose

officine dei Ciclopi.

 

Ora è bello circondare il capo di verde mirto splendente

o di fiori, che la terra offre generosa; ora è bello nei boschi

ombrosi offrire sacrifici a Fauno,

sia che chieda un’agnella, sia che voglia un capretto.

 

La Morte che rende pallidi bussa con piede imparziale

alle capanne dei poveri e alle torri dei re. O Sestio fortunato,

la brevità della vita ci impedisce di nutrire una speranza lunga. Già ti incalza

la notte e i Mani di cui si dicono tante favole,



 

e la spoglia casa di Plutone: quando vi arriverai

non sceglierai più con i dadi il re del convito

e non guarderai ammirato il giovinetto Licida, per il quale ora

ardono i giovani e presto proveranno amore le fanciulle.

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Tutto si risveglia e la danza invita alla bellezza e all’amore. Ma una cesura secca, all’inizio della quarta strofa, rompe l’incanto: dal piacere della vita sorge amaro il pensiero della morte e la consapevolezza degli anni troppo brevi per l’inesauribile speranza dell’uomo; all’ombrosa frescura del boschi si sostituisce l’ombra dell’Ade e anche i giochi d’amore di oggi sono avvolti dal suo velo scuro.

Forse l’unanime ammirazione per Orazio è dovuta anche a questa nota di contenuta mestizia che pervade in modo assolutamente non romantico i versi dalle ali dorate. Il realismo antico che guarda i campi scintillanti di brina, le notti di luna, le carene delle barche e il caldo buono delle stalle, la fantasia che immagina le danze delle dee e il duro lavoro dei ciclopi per fabbricare i fulmini non dimenticano il colpo secco della fine che incombe su ogni cosa. La vita va avanti, si beve, si ama. Il ciclo delle stagioni ricorda che per l’uomo tutto ha termine. Non cedere alla crudeltà di questa fine è opera che non compete all’uomo. Il saggio avverte tutto ciò e si ritira in un distacco che gli permetta di godere i suoi giorni con misura.

Soluzione inadeguata per noi moderni, abituati a superare il limite o più facilmente in molte forme disperati. Se noi moderni fossimo veramente cristiani, l’avvicendarsi delle stagioni e il trascorrere del tempo ci avvertirebbero che la luce e le danze che ci allietano qui sono così belle perché promettono che ci sono cose ancora più belle e che niente andrà perduto.