Il mercato del cinema cinese in un arco di tempo tra i cinque e i dieci anni è destinato a diventare il più grande del mondo. I calcoli sono semplici. Nel 2009 è cresciuto di quasi il 50 per cento, negli anni precedenti la crescita era del 30 per cento, dato che alla fine dell’anno scorso esso era un decimo di quello americano, alla velocità attuale quello cinese supererà il mercato americano in un arco di 5-10 anni. «Non si tratta però di un fenomeno semplicemente economico – dice a ilsussidiario.net Francesco Sisci, corrispondente de La Stampa – ma sopratutto culturale: il nostro immaginario ne sarà radicalmente cambiato. Questa non è una cosa negativa: sarà negativo solo se avverrà senza coscienza da parte dei paesi occidentali». Ma andiamo per gradi.



Non rischia di essere un boom fuori tempo massimo?

No, perché il cinema, pur con il declino subito a causa della concorrenza di tv, internet e videogiochi, è ancora la forma di comunicazione principe che informa di sé anche gli altri tre mezzi, è il qualche modo il blocco fondante dell’immaginario collettivo. Hollywood nel secolo scorso ha avuto una forza di penetrazione enorme rendendoci tutti “americani”. I jeans, le camel, il vedere il mondo attraverso il parabrezza di un’auto, la musica, il whisky, i conflitti come la perenne lotta tra cowboy e indiani e via dicendo, tutto questo è penetrato nelle nostre ossa e nelle ossa del mondo che ha visto le passioni «attraverso» Hollywood. Domani la stessa cosa potrebbe accadere con il cinema cinese.



Che strada ha intrapreso la Cina?

Qui c’è in realtà una doppia convergenza. Da un lato cresce la produzione cinese interna, che si fa comunque largo nel mondo. Dall’altro cresce la produzione di Hollywood che pensa anche al mercato cinese. Due recenti pellicole sono importanti: il cartone Kung fu Panda, che racconta lo spirito delle arti marziali cinesi meglio di quanto qualunque pellicola cinese sia riuscita a fare, e l’apocalittico 2012, dove ci sono il Tibet e i soldati cinesi. Hollywood pensa al mercato cinese e sa anche che la Cina è un contenuto che vende e venderà bene in America e nel mondo nel prossimo futuro.



E il cinema cinese, lei dice, cambierà non solo il nostro cinema ma influirà anche sul nostro immaginario.

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Sì. Basta guardare indietro: anche senza la potenza cinematografica ed economica della Cina alle spalle, il cinema cinese ha già fatto breccia nei nostri cuori. Negli anni ’70 Bruce Lee e il kung fu hanno cambiato il modo di descrivere le scena di lotta in ogni arte visiva in movimento. Prima di Bruce Lee la lotta erano scazzottate disordinate, sedie spaccate in testa nei saloon, pistole sparate all’altezza della cintura. Dopo Bruce Lee tutte le lotte del cinema occidentale hanno preso dalle movenze del kung fu, sono diventate danze, salti acrobatici, trucchi da circo. Il cinema indiano, con tutte le sue pellicole di Bollywood, non ha avuto la stessa penetrazione nell’immaginario occidentale. Le danze, i canti, ossatura dei suoi racconti, sono rimasti confinati all’India.

 

La cultura cinese veicolata dalla pellicola avrà lo stesso impatto di quella americana?

 

Ci sono due elementi che agiscono contemporaneamente, uno economico – ed è l’espandersi della Cina come potenza economica mondiale – e l’altro culturale, legato al fascino di certi temi cinesi. Il cinema ha una forza che sottovalutiamo. Potremmo diventare culturalmente più «cinesi» ben prima che la Cina diventi la prima economia del mondo, cosa che dovrebbe arrivare tra 20-30 anni.

 

Come dobbiamo prepararci all’incontro di queste mentalità?

 

È bene dire che questo avverrà comunque perché è legato all’ascesa della Cina. Il punto è se avverrà con o senza senso critico. La cultura cinese è estremamente diversa e complicata, a differenza di quella americana che è figlia dell’occidente e che per questo ci è naturalmente più vicina. Quella cinese è più lontana ma proprio per questo è più suggestiva, affascinante e quindi anche meno criticamente controllabile.

 

E dal punto di vista del mercato cinematografico come andranno le cose?

 

Mentre per il sorpasso economico si dovrà aspettare lo spazio di una generazione, per la trasformazione di Hollywood in Chollywood aspetteremo solo cinque anni, neppure il tempo che passa tra la nascita di un bambino e il suo primo giorno di scuola. Si tratta di un vero battito di ciglia, oggettivamente insufficiente per costruire una coscienza critica della cultura cinese.

 

Lei dà molta importanza alla maturazione di questa coscienza critica, perché?

 

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Perché senza questa coscienza critica potremmo avere fenomeni gravi di straniamento culturale, simili a quelli che i cinesi ebbero a cavallo tra l’’800 e il ’900 quando la cultura occidentale precipitò loro addosso come un macigno, causando enorme confusione. In più di un modo il successo del comunismo in Cina fu anche figlio dell’arrivo acritico di quella cultura occidentale. Allora per inseguire i modelli culturali occidentali vincenti la Cina passò come una ruspa sopra la sua cultura e la sua tradizione, e poi la tradizione rispuntò da altre parti, magari in forma retriva e ultraconservatrice.

 

Come si può evitare quello che ha chiamato «straniamento culturale»?

 

In occidente e in Europa – già molto debole per una crisi spirituale profonda – occorre sviluppare un nuovo approccio critico verso la cultura cinese, fondamentale per capire la Cina di oggi e per preservare e far crescere la nostra cultura di paese occidentale. Il rischio è quello che, come oggi l’occidente vede la Cina pregiudizialmente in maniera ostile, un domani – a causa di superficialità e pressapochismo – si comporti in modo supino e servile. Questo deve evitarlo. L’Europa in particolare deve guardare alla Cina e conoscerla, se vuol rimanere di più se stessa. La sfida che il cinema lancia alla cultura di massa sta qui: l’esortazione ad un approfondimento per una rinascita culturale che non si può rimandare.