Nell’ampio dibattito attualmente aperto sul ruolo svolto dalla Chiesa cattolica nel Novecento, e in particolare sui rapporti da questa mantenuti con la società civile, si sta segnalando la crescente ripresa di interesse per la figura del card. Giuseppe Siri, per oltre un quarantennio arcivescovo di Genova, primo presidente della Conferenza episcopale italiana (dal 1959 al 1965) nel suo moderno assetto di assemblea plenaria dei vescovi peninsulari e – almeno secondo alcuni autorevoli testimoni – forse il presule del secolo scorso maggiormente atteso per la Cattedra di Pietro senza averla ricoperta.



Dalla data della sua scomparsa – singolarmente quello stesso 1989 che vide il crollo del muro di Berlino, oggi simbolicamente assurto quale termine ad quem della guerra civile europea (con il 1991 di Hobsbawm) – e ancora sino a pochi anni or sono, la figura di Siri è stata per molti aspetti frettolosamente inquadrata nel conservatorismo cattolico, quando non identificata con un modello di intransigentismo curiale visto come emanazione diretta di quella “minoranza” conciliare che è stata considerata in alcune letture storico-ecclesiali la linea “perdente” al cospetto dell’affermazione delle novità dogmatico-pastorali del Vaticano II.



Dell’arcivescovo di Genova si sono così prevalentemente ricordate le prese di posizione negative – vere o ipotizzate – sui passaggi evolutivi attraversati dalla Chiesa tra gli anni ’50 e ’80, stigmatizzandogli soprattutto atteggiamenti – in chiave quasi caricaturale – improntati all’austerità, a un rigido e formalistico contegno, ad una presunta inclinazione autoritaria. Una lettura, questa, sostenuta sul ricordo di testimoni diretti o indiretti, che è prevalentemente fiorita in quei gruppi ecclesiastici i quali, in effetti, si trovarono su posizioni a lui teologicamente opposte al termine delle assise vaticane.



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Che il presidente della neonata Cei manifestasse in privato una spontanea inclinazione all’ironia, lo ha recentemente confermato a chi scrive pure il suo attuale successore (e, dato non poco significativo, suo allievo), il card. Angelo Bagnasco, denunciando però in modo condivisibile come di tali atteggiamenti (evidentemente collocabili in contesti confidenziali o comunque non ufficiali) si sia poi voluto strumentalmente desumere da parte di alcuni osservatori un’immagine non corrispondente al vero personaggio, o perlomeno fortemente riduttiva. Perché Siri era sì nel privato uomo dotato di “sense of humour” e visioni inclini alla satira di costume – quando non pure sarcastiche tout court -, ma a ciò non può essere ridotto il suo cospicuo contributo alla maturazione del sensus ecclesiae contemporaneo, alla tutela di una retta lettura del rapporto Chiesa-mondo, e pure all’apertura consapevole ai segni dei tempi palesatisi nell’evoluzione della civiltà contemporanea.

 

La riprova di ciò viene oggi dal ricorso sempre più frequente e meno ideologicamente precondizionato ai suoi scritti, pubblici e privati – agevolato dall’apertura degli archivi ecclesiastici -, che sta man mano sostituendosi al florilegio di testimonianze e attribuzioni per ipotesi, non sempre onestamente formulate che, ancora lui vivente, ne avevano in parte offuscato la statura di uomo di Chiesa e autentico credente. Su questo aspetto chi scrive ritiene di avere oggi un certo titolo di attendibilità, se non altro sulla scorta della mole di documenti relativi all’arcivescovo di Genova controllati negli ultimi anni presso i fondi documentari delle maggiori diocesi italiane e della stessa Cei.

 

Un primo dato che emerge dai carteggi con i confratelli vescovi, con i papi, con figure eminenti della politica e della cultura italiane e internazionali, così come con semplici, devoti fedeli della sua diocesi, è il senso di responsabilità pastorale costantemente avvertito dal presule ligure in ogni azione, parola, indirizzo intrapreso. Siri visse il proprio sacerdozio – come ha recentemente enfatizzato ancora il card. Bagnasco – in modo totalizzante e con profondo spirito di fede: egli intese sempre promuovere la Chiesa non per semplice spirito di tutela della sua dimensione gerarchica – della cui centralità, a partire dall’istituzione papale, rimase peraltro sempre convinto – ma con grande propensione per l’elevazione della societas christiana in toto, nella complessità dei suoi stati di vita, manifestando la medesima premura per consacrati e laici.

 

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Pur non essendo questo il luogo di un approfondimento di aspetti e momenti del magistero di Siri (per il quale si potrebbe vedere il recente volume Siri, la Chiesa, l’Italia, edito da Marietti 1820), vale la pena sottolineare alcuni dati che da soli ne offrono un profilo assai più ampio e complesso di passate visioni riduttive: il suo antifascismo nella Genova sotto la seconda guerra mondiale; la capacità di intravvedere nell’episcopato italiano, al pari di molti esteri, un’entità omogenea e per certi tratti pure autonoma dalla Santa Sede nell’esprimere il proprio servizio pastorale al paese; la sua attenzione liturgica; la costante dedizione per i ceti meno abbienti e la promozione sociale al di là delle barriere elitarie; la sensibilità per le trasformazioni sociali che non lo fece mai rinchiudere a riccio innanzi ai rischi degenerativi della società su tematiche quali il denaro, la sessualità, il potere; l’apertura verso le nuove forme di aggregazione ecclesiali postconciliari, intuendovi – lui che era cresciuto ecclesialmente nelle strutture dell’Azione Cattolica sino a divenirne uno tra i maggiori responsabili – la specifica sensibilità per i contesti umani in rapido mutamento del Novecento.

 

Infine, non sembri qui ozioso sottolinearlo, l’atteggiamento sempre improntato a franchezza e onestà intellettuale nel suo confrontarsi con la principale ideologia dell’Otto-Novecento avversa alla Chiesa, il comunismo, con il quale si misurò con fermezza, senza però eludere i quesiti morali e sociali che esso andava proponendo alla società. Proprio su quest’ultimo aspetto si deve invece la riduzione del suo impegno, peraltro non per opera comunista, alle strategie spesso speculative della politica, verso le quali egli invece esercitò sempre distacco personale, mantenendo piuttosto la consapevolezza che ciascun attore della società civile dovesse stare al proprio posto per contribuire nel suo specifico esercizio al bene comune.

 

È una riflessione che, non a caso, è stata di recente ripresa dall’attuale presidente della Cei, in un quadro sociopolitico di grande confusione valoriale e operativa quale è l’odierno, auspicando il riaffermarsi di una attitudine all’impegno politico dei cattolici non opportunista, improntata a quei valori di servizio e testimonianza evangelica di cui, oggi possiamo ormai dirlo, il cardinale Siri fu diretto testimone con la sua esistenza cristiana ancor prima che con il proprio magistero.