L’Inganno – Vittime del Multiculturalismo affronta il tema cruciale dell’integrazione e del multiculturalismo in un’Italia sempre più affollata da cittadini stranieri delle più diverse provenienze. In una società globalizzata e in cui si manifestano con sempre maggiore forza i cosiddetti glocalismi, il processo di integrazione dei migranti apre una stagione di cambiamenti che la politica deve saper decifrare, governare e indirizzare. Ad oggi l’Europa sta facendo i conti – vedi Germania, Francia, Inghilterra, Olanda, Danimarca – con un modello di multiculturalismo che ha dimostrato tutto il suo fallimento, perché orientato a una pericolosa forma di laissez faire che ha prodotto non un’integrazione, ma una marginalizzazione pericolosa che rischia di minare la coesione sociale e la tenuta di diverse società.
Tale multiculturalismo, che legittima il primato del raggruppamento umano rispetto alla dignità dell’individuo, si fonda sul terribile presupposto che non esiste un diritto naturale finalizzato a determinare principi basilari validi per tutti e per sempre. Ogni cultura, perciò, giustificherebbe i propri usi e costumi all’interno di se stessa. La parola multiculturalismo, usata inizialmente per indicare l’esistenza di una molteplicità di culture, è diventata una vera e propria ideologia, nonché sinonimo di relativismo, come se ogni dimensione culturale, ogni stile di vita, ogni valore possano essere considerati e posti sullo stesso piano.
Sul piano dell’etica, non è vero che le culture sono tutte ugualmente valide. Ne esistono alcune dove la dignità dell’individuo, la parità tra uomo e donna, la tutela degli strati deboli della società sono valori praticati, perché da tempo divenuti principi universalmente riconosciuti. E ne esistono, invece, altre dove questi fondamenti di civiltà non sono nemmeno contemplati. In questo contesto particolare risalto hanno le vittime ingannate da questo multiculturalismo, i soggetti deboli, coloro che ad oggi hanno potuto vedere solo la parte deteriore di un processo di civiltà che avrebbe dovuto coinvolgerli migliorandone le condizioni di vita, ma che li ha segregati in situazioni di isolamento e di soggiogamento.
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Mi riferisco in particolar modo alle donne immigrate, specie musulmane, che subiscono i rigurgiti di un estremismo che le confina in casa, usa loro violenza e le tratta alla stregua di fantasmi. Donne di cui ho voluto raccogliere le tristi storie e vicissitudini per dare diretta testimonianza di questo olocausto nascosto. E invece proprio dalle donne può e deve partire la riscossa di un modello vero di integrazione in cui esse possono giocare un ruolo cruciale. I casi delle donne islamiche maltrattate sono parte di un preoccupante e più ampio contesto di miopia, di vuoto culturale, dentro i quali attecchisce il lato deteriore dell’Islam divenuto, purtroppo, orfano noncurante della grande tradizione culturale e della vocazione umanistica della quale si fecero interpreti filosofi del calibro di Averroè.
Fede e ragione, direbbe il filosofo, non possono non concordare sul principio razionale secondo il quale i diritti umani riguardano tutti, maschi o femmine che siano. Soltanto attraverso il miglioramento delle condizioni delle immigrate è possibile pensare a un futuro di reale integrazione, nel quale la comunità musulmana, assieme alle altre etnie e tradizioni, possano integrarsi nel rispetto di quel minimum etico che deve penetrare nel comune sentire di ogni essere umano in qualsivoglia parte del globo. La comprensione profonda dei valori della laicità, di contro al laicismo, appresi e rivissuti come parametri indispensabili alla convivenza fra diversi, può lasciare a ogni uomo la libertà e la serenità per poter vivere appieno la propria fede.
Dalla laicità proviene necessariamente la disposizione al dialogo con tutti, un confronto capace di trasformarsi davvero in occasione di arricchimento e non di scontro. Dopo l’azione terroristica dell’11 settembre 2001 tante ombre inquietanti si sono profilate all’orizzonte. Abbiamo assistito, infatti, al Sahwa, cioè al “risveglio” dell’estremismo islamico, un terremoto che ha costretto l’Occidente a interrogarsi e riflettere specie su quanto sta accadendo al proprio interno. In questo contesto, l’Europa si trova di fronte a una debolezza, a un’assenza di riferimenti, a uno smarrimento d’identità e un vuoto psico-culturale, patologie queste che sicuramente sono lette come negative da parte degli immigrati islamici caratterizzati da identità nitidi e forti.
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Gli europei paiono fuggire dalle loro tradizioni, banalizzandole o rinnegandole, anche per ignoranza del loro straordinario itinerario storico. Ecco, quindi, che l’immigrato, lontano dal proprio paese, non è in grado di confrontare la sua identità di musulmano con quella occidentale che stenta a manifestarsi. L’Islam radicale si diffonde quindi tra gli europei e attecchisce a causa di una globale fiacchezza dell’Europa e della crisi che sta vivendo il post-moderno. La crisi valoriale favorisce la diffusione del radicalismo islamico che aggredisce e scava il terreno dell’incertezza esistenziale. Da un lato, l’Occidente colpito dal nichilismo, dal relativismo e dall’insicurezza; dall’altro l’Islam forte di certezze granitiche e profonde.
A testimonianza ho voluto raccogliere le cronache più significative comparse sulla stampa che raccontano le trame dello sviluppo dell’estremismo in Occidente, ivi comprendendo un’esauriente mappatura delle moschee italiane. Servono, allora, politiche efficienti di sostegno per gli immigrati nel rispetto dei principi democratici, dell’eguaglianza e della solidarietà. Se esiste necessariamente un conflitto fra eguaglianza, da un lato, e specificità culturale dall’altro (come nel caso della poligamia o del ripudio), se esistono valori giuridici, sociali e culturali radicati all’interno delle comunità, ma contrari ai principi fondamentali in materia di diritti umani (le mutilazioni dei genitali femminili, i matrimoni forzati/combinati, ecc), non si possono accettare pratiche lesive della libertà e dignità della persona.
Difatti una cultura che si isola, condannando l’alterità e rifiutando l’interpretazione alternativa, nega alla fine se stessa, irrigidendosi in Kultur, l’idea-forza nazionalista e, quindi, nazionalsocialista, fondata sulla supremazia di un popolo e dei suoi usi e costumi, piuttosto che alla Zivilisation dell’Illuminismo. Ecco perché l’integrazione può e deve essere accompagnata dalla necessaria applicazione del diritto del Paese che accoglie e che offre spesso tutele maggiori nell’ambito del rispetto della dignità dell’uomo e dei diritti umani in generale, specialmente in materie come il ripudio o la poligamia. Decade, perciò e giustamente, la legge straniera manifestamente in contrasto con i principi fondamentali e irrinunciabili della tradizione giuridica europea.
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Tuttavia la giurisprudenza europea di paesi come Italia, Gran Bretagna, Germania, ha manifestato una tendenza ad attribuire delle attenuanti a chi ha commesso delitti, adeguando il giudizio in rapporto all’identità culturale, giungendo all’assurdo di non tutelare completamente la vittima, in quanto appartenente a una cultura in cui quel reato non è considerato tale o stimato di minore gravità. I cosiddetti “reati culturali”, cioè condotte sanzionate dal diritto penale nazionale, ma permesse nella cultura di provenienza dell’attore del reato, sembrano, a tratti, prevalere nelle linee di ordinamenti che, per salvaguardare un multiculturalismo di stampo relativista e nichilista, arrivano a giustificare, attraverso sentenze e pronunciamenti dei tribunali, se non addirittura attraverso l’esempio limite delle corti sharitiche istituite in Inghilterra, comportamenti contrari al diritto occidentale e ai diritti universali dell’uomo.
La vera sfida è capire che le comunità non sono culture isolate, immutabili, ma parti integranti e interattive della società in cui vivono e del momento storico. L’interazione e la convivenza si basano su diritti e doveri reciproci. Il dovere del paese ospitante non è di giustificare i reati come prassi culturale, ma di cercare di affiancare alla repressione penale del singolo comportamento, una serie di misure ampie e diversificate, capaci di influenzare l’educazione civica della comunità per sradicare l’estremismo culturale identitario. Solo rendendo chiare le regole per l’ottenimento della cittadinanza, dando maggiore spazio e voce ai musulmani moderati, restringendo la capacità di azione degli estremisti, investendo nella cultura e nella formazione, promuovendo lo studio della lingua e delle leggi italiane, diffondendo i principi che regolano i diritti e i doveri nel nostro Paese, sarà possibile che anche in Italia non si verifichino, così come è accaduto in Francia, le rivolte delle periferie abitate da immigrati di terza generazione, rimasti corpo avulso dal resto della società.
C’è il rischio, altrimenti, di scadere nella cosiddetta “discriminazione positiva” che nasce dal pregiudizio sociologico, secondo il quale i musulmani formerebbero tendenzialmente un’entità sociale distinta, un blocco omogeneo con gli stessi costumi, un corpo così differenziato da dover accordare loro dei diritti speciali adatti al loro modo di vita. Ed è proprio lasciando che si creino dei gruppi sociali diversi e separati dal tessuto sociale connettivo, che diventa poi arduo ogni tentativo di adeguarli alle regole comunemente condivise, cioè all’unica soluzione per evitare che la comunità islamica si ripieghi su se stessa.
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E’ qui che devono intervenire lo Stato e il mondo della politica prima che sia troppo tardi per scoprire l’inganno di un conflitto di civiltà che non deve trovare spazio di manovra. Ecco perche occorre dare più voce all’Islam moderato, minacciato da rigurgiti oscurantisti e imbavagliato dalla forte opposizione degli estremisti che promuovono una visione del mondo astorica, legata alla cristallizzazione su letture passate, alla fissità delle glosse, all’immutabilità delle spiegazioni allegoriche. Oggi il Mediterraneo, questo mare dai tratti lacustri, sulle cui sponde è germogliata la civiltà, torna prepotentemente alla ribalta della politica internazionale, come terra di confine più che di comunione, come mare di divisione più che di unione.
Qui l’Italia può e deve giocare un ruolo di leader, dovuto alla sua tradizione diplomatica e alla sua posizione geografica. Un’Italia che non può dimenticare la grande lezione di Federico II di Svevia, lo stupor mundi sotto la cui egida hanno convissuto in pace ebrei, arabi, copti, cristiani.