Goya potrebbe benissimo esporre con successo alla prossima biennale o fiera d’arte contemporanea, se non fosse per quell’inconveniente di essere morto da quasi duecento anni. Alcune delle sue opere mostrano, infatti, una incredibile contemporaneità nei temi e nei modi della pittura. La visione grottesca dell’umanità povera così come del potere nei suoi rappresentanti a diversi livelli, la violenza tra gli uomini, che ha il suo culmine nella guerra, il dolore a volte insopportabile del vivere che si esprime nel grido senza risposta. Questi sono i temi prevalenti nella pittura di Goya. Certo non gli unici, ma sicuramente quelli per cui oggi viene apprezzato. Ma anche quella sua pittura pastosa e sfaldata nella pennellata, erede a sua volta di Velazquez e Rembrandt, quei volti appena accennati nei contorni, che emergono talvolta da fondi scuri o dipinti con una tecnica che sembra anticipare non solo l’Impressionismo, ma perfino il vigore dell’Espressionismo, fanno di lui un pittore che si avvicina al nostro sentire della pittura del presente.



A Milano una mostra ambiziosa documenta le relazioni di Goya con gli artisti dei secoli successivi: 184 opere (tra dipinti, disegni e incisioni) e 45 di artisti fondamentali della storia dell’arte tra XIX e XXI secolo, 62 enti prestatori, provenienti da 15 Paesi del mondo. Il percorso viene presentato al visitatore con un metodo di confronto diretto sui singoli temi tra le opere di Goya e quelle di alcuni artisti che hanno in qualche modo fatto riferimento al pittore spagnolo (vissuto tra il 1746 e il 1828). In realtà la pittura di Goya non è solo inquietudine di soggetto e di rappresentazione. C’è una grande parte della sua produzione – soprattutto quella del suo primo periodo, ma anche quella in parallelo alle opere più “oscure”- che è solare e delicata. Di questa in mostra non si trova traccia, recando al pittore una grave ingiustizia, poiché il visitatore si porta via il ricordo di un pittore maledetto, inquieto e inquietante, che non corrisponde totalmente al profilo di Goya.



Certo è che almeno a partire dal 1819 la sua pittura si incupisce nei toni e nei soggetti. Le cause sono molte, comprese quelle politiche. Prima fra tutte la disillusione per il fallimento della resistenza spagnola alla dominazione francese (come sottolinea il celebre dipinto 3 maggio 1808: la fucilazione alla Montaña del Principe Pio), ma ancor più dell’acuirsi della grave malattia che lo lascerà quasi totalmente sordo e che lo aveva colpito nel 1792 a soli 52 anni. 

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La mostra si articola in sezioni tematiche nelle quali troviamo dipinti, disegni e incisioni del maestro spagnolo confrontati con opere di artisti che a lui si sono in vario modo ispirati. La prima sezione è intitolata “Il lavoro del tempo e i ritratti”, in cui emerge una concezione dell’ «io» che trascende la posizione sociale e che tutti accomuna nel dover sottostare al lavoro del tempo. Ritratti che prevedono un interlocutore, mai pose di maniera. Che aprono una domanda, che chiedono una risposta anche a noi che dopo più di 200 anni ci troviamo dinnanzi una umanità che ci rassomiglia.



 

La seconda sezione è dedicata alla “Vita quotidiana” , di cui Goya coglie il fatto di non sottostare a un ordine prestabilito. Perché nel presente c’è dentro tutto: il lavoro, l’amore, gioie e dolori, banalità e dramma. Memorabile “La lattaia di Bordeaux”, opera tarda che presenta una semplice lattaia con la dignità di una principessa. Per contro il “ritratto di Maria Luisa di Parma” strappa il sorriso per l’ironia che rasenta il grottesco con cui l’artista la dipinge. Ma la sezione che più colpisce è quella dedicata a “La violenza e la guerra”, in cui sono presentate le famose incisioni del ciclo “I disastri della guerra”, cui si raffrontano alcune opere di Picasso, come le incisioni “Sogno e menzogna di Franco” o la “Madre col bambino morto” del ’37, confluito poi nel celeberrimo “Guernica” dello stesso anno. Chi solleverà l’uomo dal male, dunque? Quel male che l’uomo stesso ha generato? Una soluzione che l’artista persegue è quella della pittura, capace, se non di cambiare il male, almeno di lenirne gli effetti. Per questo il pittore afferma: «Per distrarre la mente dalle considerazioni sui miei mali, mi dedicai a dipingere una serie di quadri da studio, nei quali la fantasia e l’invenzione non hanno confine».

 

“Il grido” sembra essere però l’ultima parola dell’uomo. Quando anche la ragione sembra aver ceduto le armi e i tempi si fanno sempre più drammatici, l’uomo grida tutta la forza della sua soggettività che non vuole arrendersi e cerca una risposta. In questa ultima sezione sono molte le opere di artisti del tempo presente, in cui il grido dell’artista dà voce al grido dell’umanità ferita. Colpisce in questa sequela di urla gridate a suon di strappi nelle tele, schizzi impazziti di colori e corpi deformati (bellissimo il trittico di studio per il “Ritratto di Peter Bear” di Bacon del 1975) una saletta in cui spicca il piccolo e potente “Cristo nell’orto degli ulivi” di Goya del 1819, in cui da un fondale nero catrame emergono dai pochi tratti di colore denso e chiaro la persona di Cristo, figura del grido di tutti gli uomini di fronte al proprio destino, che allarga le braccia e interroga il Padre di fronte all’ineluttabilità della sua passione e morte, ricordata dal calice presentato dall’angelo. Fosse anche solo per questo quadro vi consigliamo la visita, soprattutto in questi tre giorni in cui la Chiesa ricorda a tutti gli uomini il destino di Cristo, che ha sofferto, è morto ed è risuscitato per la salvezza di ciascuno. A ricordare con la sua vita che la risposta al grido dell’uomo c’è. Chissà cosa ne pensava Goya mentre lo dipingeva…