Ignazio Silone non è uno scrittore che ha bisogno di presentazioni, anche se oggi è molto meno letto e proposto di quanto non lo fosse fino a una trentina di anni fa. In quegli anni impegnati piaceva per lo stile narrativo essenziale, per la drammaticità della sua storia personale – narrata magistralmente in Uscita di sicurezza -, per la decisione di non abdicare rispetto al suo ideale di giustizia, decisione che lo ha reso martire due volte: a causa del fascismo e a causa del comunismo.



Il tipo di impegno a cui un intellettuale come Silone si sente chiamato è ben delineato da questa sua affermazione: «Poiché la sola realtà che veramente mi ha sempre interessato è la condizione dell’uomo nell’ingranaggio del mondo attuale, in qualunque sua latitudine o meridiano. E naturalmente mi sento, ovunque, dalla parte dell’uomo e non dell’ingranaggio».



Oggi invece i temi che Silone affronta nelle sue opere e le problematiche che sviluppa appaiono un po’ datate, interessano poco o nulla, il suo stile “pietroso” non invoglia alla lettura, in particolare le giovani generazioni.

Nei suoi scritti Silone ci offre una presentazione della sua terra, la Marsica di inizio ’900, con un realismo pungente. Incontriamo molti personaggi – spesso umili e poveri ma non solo – che vivono una fede tradizionale e semplice, nello stesso tempo decisamente concreta.

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A titolo di esempio, mastro Eutimio, il vecchio falegname, asciutto e nodoso come gli ulivi da cui è circondato, in Il seme sotto la neve, così si esprime: «Non parlo delle tre chiese che esistono a Colle, non parlo della parrocchia che esiste da secoli, non parlo dei martiri che vi sono sepolti; ma qui, le bestie l’aria l’acqua la terra il vino la cenere l’olio la polvere delle strade, tutto è, per così dire, cristiano» (p.117 ed. Oscar Mondadori, 1976).



 

Illuminante è il dialogo tra il vecchio falegname e un piccolo gerarca di provincia. Quest’ultimo vorrebbe fargli aggiungere alla grande croce che Eutimio ha appena terminata su incarico della parrocchia delle modifiche per adattarla alle liturgie della nuova eloquenza: un fascio di verghe e una grande scure sulla sommità. Eutimio è certo della impossibilità della commistione tra il cristianesimo e un regime politico – in questo caso il fascismo – che proprio da tale commistione vorrebbe ricavare una sempre maggiore credibilità. Egli non può o non sa esprimere a parole le ragioni del suo rifiuto, evidentemente non possiede gli strumenti linguistici e culturali per farlo, allora ricorre a domande e riflessioni disarmanti nella loro concretezza: «Dove poggerà la testa Nostro Signore?» (p.221).

In ogni caso, sapendo bene che non si può impunemente contrastare il potente di turno, umilmente motiva il suo rifiuto all’insolita richiesta dicendo che essa sorpassa le sue capacità, di «modesto falegname piuttosto all’antica» che riesce a «fare solo il poco imparato da ragazzo, le solite cose semplici pratiche».

 

(Silvana Rapposelli)