È passata qualche settimana da quel “ventuno a primavera” come Alda Merini nominava il giorno della sua nascita, ma il tempo pasquale mi sembra molto propizio per un ricordo della poetessa.

Ho avuto la fortuna di conoscerla personalmente, quando ormai quasi quattro anni fa, la invitammo mio fratello gemello, don Massimo, ed io alla festa del nostro sessantesimo compleanno. Un gruppo di giovani universitari aveva cantato magistralmente alcuni spirituals della tradizione americana, un amico attore recitato una tra le memorabili pagine dei Promessi Sposi, lei aveva ascoltato con pazienza; non sembrava annoiata di dover ascoltare senza poter uscire per fumare la necessaria sigaretta. Poi toccò a lei, salì sul palco con aria compiaciuta. La prima battuta fu per noi due: non le piacevano i gemelli perché ne aveva vicini di casa particolarmente poco cortesi, poi a don Massimo non fece mancare uno sfottò sulla fortuna dei preti che, non avendo famiglia, evitano i relativi dispiaceri. Dopo una divertente e svagata divagazione sui giovani poeti e sui vecchi, recitò una delle sue composizioni più belle, la sua vita come l’ha descritta: La Terra Santa.



Ho tra le mani la plaquette, allora fresca di stampa – per le edizioni Pulcinoelefante -, che mi lasciò congedandosi. Raccoglie una piccola tarsia di Michele Sangineto e una poesia per Adriano Porazzi: Alda Merini scriveva e pubblicava così, seguendo quella continua simbiosi tra il linguaggio della vita e quello della poesia. Difficile immaginarla, soprattutto nell’età matura, chiusa a pensare prima di scrivere; dettava, invece, negli ultimi anni, testi anche al telefono o li scriveva sul pezzo di carta che le capitava tra mano seduta all’osteria davanti al Naviglio.



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La Merini amava spesso ricordare la Milano del passato e così per molti è diventata un’icona di un tempo che non c’è più; io credo, invece, che essa sia una vera icona del presente: un mondo – una città – inquieto in cui bene e male si intrecciano e si interrogano sul senso del loro coesistere; un desiderio di bellezza, dentro il buio della quotidianità, una sofferenza perenne tra sprazzi di luce e felicità. Non è questo l’eterno  presente cantato dai poeti di ogni epoca? Quando Alda più volte imprecava contro il consumismo, l’individualismo di oggi, proprio invocava lo sguardo sempre nuovo di chi desidera una umanità trasformata, redenta. Si legge nel Cantico dei Vangeli (per Frassinelli del 2006): Fuggirò da questo sepolcro/ come un angelo calpestato a morte dal sogno,/ ma io troverò la frontiera della mia parola./ Addio crocifissione,/ in me non c’è mai stato niente:/ sono soltanto un uomo risorto. È l’uomo Gesù che parla, per provocarci a riconoscerlo e seguirlo.  



 

I testi della Merini – anche della sua produzione in prosa si dovrebbe tenere conto – nascono talvolta occasionali, ma sono sempre importanti, penetrano nelle fibre del cuore e della carne perché da lì nascono. Nella plaquette che ricordavo scrive: Ci sono paternità che non sono solo/ di carne, il desiderio della maternità/paternità, dell’amore generativo, è uno dei motivi ricorrenti per la poetessa, come in questo aforisma: A volte Dio/ uccide gli amanti/ perché non vuole/ essere superato/ in amore.

 

A riprova è impressionante leggere un brano tra i suoi primi, del 1949, aveva diciotto anni, intitolato Luce: Chi ti descriverà, luce divina/ che procedi immutata e immutabile/ dal mio sguardo redento?/ Io no: perché l’essenza del possesso/ di te è ‘segreto’ eterno e inafferrabile;/ io no perché col solo nominarti/ ti nego e ti smarrisco;/ tu, strana verità che mi richiami/ il vagheggiato tono del mio essere. Si tratta di versi d’amore che la Merini commentava: “L’amore a quindici anni è circoscritto, ma estremamente attento… L’adolescenza è sempre alla ricerca di un vertice (di un verso) che la possa oltraggiare e al tempo stesso difendere”.