Sono rimasto particolarmente colpito, nello scoprire in un volume dell’Opera omnia di Kurt Gödel (1906-1978), uno dei più grandi logici matematici del XX secolo, un intervento in cui egli ha affermato la necessità inevitabile di una “fondazione non convenizionalistica” della matematica. In una conferenza del 1951 all’American Mathematical Society così si esprimeva: «L’indagine sui fondamenti della matematica negli ultimi decenni ha fornito alcuni risultati che sono a mio giudizio interessanti non solo di per sé, ma anche in considerazione delle conseguenze che hanno sui tradizionali problemi filosofici che concernono la natura della matematica.



Nella sua forma più semplice incontriamo questo fatto quando si applica il metodo assiomatico non a sistemi ipotetico-deduttivi come la geometria (dove i matematici possono affermare soltanto la verità condizionale dei teoremi), ma alla matematica in senso stretto (mathematics proper), cioè a quel nucleo di proposizioni matematiche che sono valide in senso assoluto, senza alcuna ipotesi ulteriore. Proposizioni cosiffatte devono esistere, perché altrimenti non esisterebbero neppure i teoremi ipotetici.



Naturalmente il compito di assiomatizzare la matematica in senso stretto differisce dalla concezione ordinaria della assiomatica in quanto gli assiomi non sono arbitrari, ma devono essere proposizioni matematiche corrette, nonché evidenti senza dimostrazione. Non c’è via di fuga dall’obbligo di assumere certi assiomi o certe regole di inferenza come evidenti senza dimostrazione» (“Alcuni teoremi basilari sui fondamenti della matematica e loro implicazioni fìlosofiche” [1951], in K. Gödel, Opere, vol. 3, Bollati Boringhieri, Torino 2006, pp. 268-286).

Da un personaggio che ha dimostrato l’incompletezza e l’impossibilità di dedurre la coerenza di un sistema assiomatico sufficientemente strutturato – cosa che secondo i più ha ridotto anche la matematica e con essa tutta la scienza a pura arbitrarietà e convenzione – non ci si sarebbe mai aspettata una simile dichiarazione di fiducia nella possibilità di fondare un sapere oggettivo, che vada al di là di quel “relativismo” che oggi domina la cultura.



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Eppure per lui la logica dice che in questa impresa fondazionale consiste la vera intrapresa e il vero senso della matematica e, di conseguenza, di tutta la scienza matematica e, in ultima analisi della conoscenza umana come tale. Una precisazione va fatta: qui “evidenti” non va inteso come espressione di ingenuità filosofica, ma nel senso rigorosamente razionale di “logicamente irrinunciabili”.

 

E qui, ancora più sorprendentemente Gödel (e con lui logici matematici moderni) sembrano incontrarsi con la logica antica che risale ad Aristotele (384-322 a.C.) e ai relativi Commenti di Tommaso d’Aquino (1225 ca-1274), che chiamava “principi primi” quelle proposizioni che vengono affermate nel momento stesso in cui si cerca di negarle, per cui negarle conduce a contraddizione: «Anche se non si possono dimostrare direttamente, tuttavia il filosofo primo offre una sorta di dimostrazione nel senso che, per poterli contraddire, coloro che li vogliono rifiutare, devono ammetterne la validità, pur non accettandoli per evidenza» (Commento ai Secondi analitici di Aristotele, Libro I, lettura 20, n. 5).

 

E insieme alle “proposizioni” o “enunciati” primi ci sono anche delle “nozioni prime” (tra quelle che noi oggi chiamiamo “concetti primitivi” di una teoria) che non possono essere scelte convenzionalmente, essendo irrinunciabili per il pensare in quanto tale. Dice a questo proposito ancora Tommaso: «Ogni scienza affronta il problema dei principi comuni delle cose; ed è necessario che lo faccia, perché la verità dei principi comuni emerge con chiarezza dalla conoscenza dei termini comuni, come ente e non ente, tutto e parti».

 

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A partire da George Cantor (1845-1918) la matematica parlerà di “insiemi” e di “classi”, di “parti” (esterne, interne a un insieme con la topologia) come nozioni primitive necessarie ad elaborare la teoria matematica. È il problema di quella che i logici e i matematici chiamano “teoria dei fondamenti”. La ricerca di questo fondamento non è certo una questione solo estetica, meramente filosofica.

 

Ormai anche i fatti concreti della storia a noi contemporanea ci documentano come si tratti, al contrario, di un’esigenza divenuta insopprimibile per rendere dignitosamente vivibile l’esistenza personale e collettiva. Senza fondamenti non si hanno più criteri oggettivi per fissare neppure i diritti e doveri della persona, le regole indispensabili di una convivenza civile, di una democrazia, del diritto che regola i rapporti tra i popoli. E da qualche anno ce ne stiamo accorgendo tutti, anche la gente comune, perché la società sta diventando sempre meno vivibile.

 

E qui ci incontriamo con il magistero dei papi che, a partire da Giovanni Paolo II e oggi con Benedetto XVI lo affermano con vigore e chiarezza sempre più insistenti. Solo un accanimento ideologico può impedire di accorgersene e, quindi, di impegnarsi in un serio lavoro di ricerca sui fondamenti, a partire dalle domande delle nostre scienze messe a confronto con i risultati della logica e della metafisica delle grandi sintesi del pensiero greco e medievale che hanno, di fatto, reso possibile proprio lo sviluppo di quelle stesse scienze (Ho cercato anch’io di fare un timido tentativo in questa direzione nel mio libro Il problema dei fondamenti.Un’avventurosa navigazione dagli insiemi agli enti passando per Gödel e Tommaso d’Aquino, Cantagalli, Siena 2009).

 

Le frasi di Gödel, appena richiamate, entrano in risonanza con le parole di colui che oggi è Papa Benedetto XVI, pronunciate già negli anni in cui era cardinale e che hanno uno sviluppo continuo e progressivo nel suo attuale Magistero pontificio: «Questo relativismo, che oggi, quale sentimento base della persona “illuminata”, si spinge ampiamente fin dentro la teologia, è il problema più grande della nostra epoca» (J. Ratzinger, Fede, Verità, Tolleranza, Cantagalli, Siena 2005, p. 75).

 

(1. continua)