Sembra che l’oblio sia calato sulla figura di Jean-Paul Sartre, padre dell’esistenzialismo francese, modello dell’intellettuale “impegnato”, compagno di strada dei comunisti, protagonista dei movimenti di piazza che turbarono le giornate del maggio parigino. Filosofo, saggista, romanziere, drammaturgo, vincitore di un premio Nobel sdegnosamente rifiutato, Sartre sembra impersonare quella figura di “pontefice” di un’intera generazione, cui il Generale De Gaulle non ha concesso di trasformarsi anche in martire. Tuttavia, negli ultimi anni della sua vita, le drammatiche testimonianze dei fuoriusciti russi, esuli in Francia e perseguitati dal regime sovietico ormai agonizzante, hanno costretto Sartre a un pubblico intervento, che per molti aspetti è apparso anche un’autocritica severa e spietata.



Che cosa rimane oggi di un pensatore sicuramente significativo del ’900 francese, al di là delle mode che egli pur sempre ha cavalcato con avidità?

Da un punto di vista più propriamente filosofico, alcuni meriti vanno certamente riconosciuti al contributo sartriano, che ha veicolato in Francia, e resi accessibili a un vasto pubblico, gli esiti della riflessione fenomenologica di Husserl e, soprattutto, di Heidegger: innanzi tutto, egli presenta una descrizione raffinata dell’intenzionalità della coscienza, applicata al caso dell’immaginazione e delle emozioni; in quelle analisi Sartre si rivela capace di cogliere, nei fenomeni studiati, sfumature e complessità variamente stratificate nell’animo umano.



Tali attitudini, dedicate a un esame dell’esistenza umana, individuale e intersoggettiva, gli hanno consentito di offrire un importante contributo nei campi che, in fondo, maggiormente gli stavano a cuore, quelli dell’antropologia e della morale. Rifacendosi alla tradizione del cogito cartesiano, ma non dimenticando l’insistito richiamo heideggeriano alla situazione in cui la coscienza è gettata, incarnandosi attraverso il corpo, Sartre afferra in modo assai persuasivo il fenomeno della libertà nell’uomo, un dato originario che consente di sfuggire ai non negati condizionamenti, sempre di nuovo trascendendoli. Inoltre, con altri filosofi a lui contemporanei, come Merleau-Ponty, mette bene in risalto la strutturale unità dell’uomo, in cui la corporeità vissuta è espressione diretta della coscienza, senza quel dualismo, che pure la tradizione cartesiana aveva trasmesso.



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Delle relazioni intersoggettive, a partire dall’analisi dello sguardo sino ai modi con cui si tenta di dominare l’altro, Sartre offre un quadro minuzioso e variegato, più attento alla patologia delle relazioni interpersonali che non alla loro fisiologia, in cui, proprio per questo, l’amore è sempre interpretato solo come tentativo, ricorrente e mai riuscito, di possedere l’altro. Occorrerà attendere Lévinas e Ricoeur per avere un quadro più equilibrato e completo della ricchezza e positività delle relazioni umane, pur senza dimenticare la loro strutturale fragilità e i rischi cui sempre sono esposte.

 

Meno convincenti appaiono i tentativi di rivitalizzare il marxismo, coniugandolo con l’esistenzialismo, in modo che quello garantisca a questo maggiore concretezza, ricevendone in cambio una rigorosa fondazione del proprio umanesimo. Più interessanti sono, invece, le riflessioni sulla dialettica che pervade i gruppi sociali, allorché fasi di calda tensione unitiva, mirante alla comune liberazione, si alternano a momenti di fredda stabilizzazione istituzionale, in cui si riproducono nuove forme di reificazione e sfruttamento.

 

Le sue pagine migliori sono ancora quelle che difendono la libertà e la concretezza della situazione umana e sottolineano l’insopprimibile aspirazione all’infinito, anche se questa vien poi definita una “passione inutile”: possono aiutare il confronto con il ricorrente naturalismo scientista, allorché pretende di ridurre l’uomo ai suoi condizionamenti fisici e neurologici, o con un persistente dualismo, che confina la peculiarità della persona in una spiritualità rarefatta, indebitamente aliena dalla corporeità.