Si è recentemente tenuto a Charlotte (North Carolina) il congresso annuale della Society for the Advancement of American Philosophy. La Society raccoglie tutti coloro che sono appassionati di filosofia americana il cui “canone” riconosce alcuni autori di base – Peirce, James, Royce, Santayana, Whitehead, Dewey, Mead – e uno stile che vuole essere al tempo stesso “rigoroso” e “aperto”.
“Rigoroso” significa che la filosofia americana vuole essere ancorata all’esperienza testimoniata dalla scienza e dal senso comune, e cercare di capire il motivo per cui in certi casi non c’è un accordo fra le due. “Aperto” significa che si è consapevoli del fatto che il pensiero filosofico è comunque un’interpretazione della realtà e, in quanto tale, inevitabilmente fallibile e rivedibile.
La Society è nata all’inizio degli anni ’70 per difendere questo genere di studi dall’invadenza predominante della filosofia analitica e dell’ermeneutica, soprattutto nella sua vena post-moderna. Gli “americani” pensano infatti di volere rispettare il metodo rigoroso della vera analitica senza rinchiudersi in schemi e questioni ristrette.
E pensano di occuparsi di problemi che riguardano il significato senza avvilupparsi nei gerghi esoterici di certi circoli post-moderni. Che poi ci riescano, ovviamente, è un’altra questione. Tra i vari “panels” (tra i quali anche uno “italiano” a cura dell’Associazione Filosofica Pragma) si è assistito anche a conferenze piene di linguaggi esoterici (noi studiosi di Peirce al riguardo siamo i peggiori) o di voli pindarici privi di ogni forma logica (qui i campioni sono i Deweyani).
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Ma l’aspetto interessante è un altro ed è certo anche un carattere dell’intera società statunitense, solo più eclatante nel caso dei filosofi: la society è davvero amata dai suoi partecipanti, che credono a quello che dicono e che fanno. Si dirà che non c’è nessuna novità. Vero, ma vedere 300 filosofi che si battono davvero perché pensano – parole del saluto del presidente J. Campbell – che la filosofia non sia un gioco per diventare intellettualmente brillanti (“clever”) ma un tentativo di rispondere alle domande della vita, è comunque uno spettacolo inconsueto in Europa.
Questo ovviamente significa anche un bel po’ di politica. I titoli delle conferenze delle sessioni plenarie parlano da soli: “che cosa c’è di americano nella filosofia americana?”, “un popolo fatto di nazioni” (il trattamento dell’immigrazione dall’Ottocento a oggi, osservata dal particolare punto di vista degli “italiani immigrati”), e – immancabile – “Obama è un pragmatista americano?”. Le risposte sono disparate anche se tendenzialmente, ma non univocamente, di sinistra (“sinistra americana”, s’intende: più a destra della nostra destra sulle tasse e le guerre, più a sinistra della nostra sinistra sui temi etici).
Ma comunque siano, sono risposte appassionate e sincere, fino al limite dell’ingenuo, e le discussioni sono reali. Due minuti di riflessione fra noi italiani bastano per porsi molte questioni: hanno ragione loro e noi siamo cinicamente arrestati dalla nostra convinzione che la vita sia fatta di comparti stagni, molti dei quali – tipo la politica – del tutto indipendenti da noi gente normale (e ancor di più dall’eterea cultura)? Oppure loro non hanno la nostra antica sapienza che ci fa dire che “non c’è mai nulla di nuovo sotto il sole”?
Ci sarebbe da discuterne. Avendo incontrato a Roma nel 1905 la pattuglia pragmatista, William James scrisse alla moglie che gli italiani gli avevano insegnato “il coraggio” delle idee, di dire ciò che si pensa, di credere a ciò che si dice. Forse è il momento di invertire le parti.