Di recente Alessandro Piperno dalle colonne del Corriere ha posto in luce tre caratteristiche di scrittori ebrei della mitteleuropa: la loro incapacità di integrarsi con la terra in cui vivono, la solitudine e l’insonnia propria delle sentinelle pronte a individuare i pericoli della notte. L’articolo cita Kafka, Joyce e Svevo, ma anche Roth, Singer e Werfel scrivono storie i cui personaggi presentano qualità simili.



Giobbe. Romanzo di un uomo semplice di Joseph Roth, pubblicato a Berlino nel 1930, tre anni prima che l’avvento del nazismo costringesse il suo autore ad abbandonare la Germania, ripercorre la storia del Giobbe biblico. Narra di un pio ebreo orientale, Mendel Singer che, costretto a emigrare in America e sopraffatto dalle disgrazie della sua famiglia e dalla dispersione del suo popolo, si ribella fino alla bestemmia. «Quando cominciavano i primi rumori nelle vie, Singer cominciava la giornata. Nel fornello a spirito bolliva il tè. Gettava un’occhiata timida ma cattiva al sacchetto con gli oggetti sacri appeso alla parete. ‘Io non prego!’ si diceva Mendel. Ma non pregare gli faceva male. La sua ira lo addolorava, e l’impotenza di quell’ira. Sebbene Mendel fosse in collera con Lui, Dio reggeva ancora il mondo. L’odio non poteva toccarlo, né più né meno della devozione».



È così vero che Dio governa il mondo che a Singer viene ridonato tutto, o quasi. Ritrova il figlio malato, lasciato in Europa e ora grande musicista; il ricordo della moglie morta, la pena di una figlia pazza non sono più uno strazio, ma l’inizio di una grande dolcezza: «‘Gravi peccati ho commesso, il Signore ha chiuso gli occhi. Un funzionario io l’ho chiamato. Lui si è tappato gli orecchi. È così grande che la nostra cattiveria diventa piccolissima’. E si riposò dal peso della felicità e dalla grandezza dei miracoli».

Nel 1953 la penna di Isaac B. Singer, ebreo polacco fuggito negli Stati Uniti, tratteggia la figura di Gimpel l’idiota. Fin da bambino egli viene ingannato da tutti, compagni di scuola, compaesani, grandi e piccoli. Lui si fa infinocchiare non perché sia stupido, ma perché è convinto che «tutto è possibile, come sta scritto nella Saggezza dei Padri». L’inganno cui è sottoposto continua anche nella vita adulta: viene convinto a sposare la donna più disonesta del paese, la quale gli fa credere di amarlo, poi gli si rifiuta e nel frattempo mette al mondo ben sei figli da altri uomini. Gimpel non cova rancore, ama la moglie, i figli non suoi, i vicini, aiuta persino chi lo tradisce. Il rabbino gli aveva detto: «È scritto, meglio essere stupidi per tutta la vita che malvagi per un’ora soltanto. Tu non sei uno sciocco. Gli sciocchi sono loro. Poiché colui che costringe il suo simile a vergognarsi, perde il Paradiso».



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Ma lo Spirito del Male tenta il suo cuore buono e stanco di essere deriso e gli suggerisce di vendicarsi. In un momento di debolezza, si lascia convincere, ma poi si pente e muore da mendicante: «Quando il momento verrà, me ne andrò con gioia. Qualsiasi cosa possa esservi laggiù, sarà reale, senza complicazioni, senza prese in giro, senza inganni. Dio sia lodato: laggiù non è possibile turlupinare neppure Gimpel». Non è l’illusione di chi spera di essere risarcito nell’aldilà, è la certezza di un’intera vita che nel precario equilibrio di tutte le cose guarda l’essenza della realtà, dove si rivela la verità nuda, senza inganno.

 

Scritto nel 1926, La morte del piccolo borghese di Franz Werfel introduce il lettore nel clima di Vienna, già capitale dell’impero asburgico, ora vinta e priva dell’antico prestigio. Il protagonista Karl Fiala ha un modesto impiego come guardiano di un magazzino e vive nel ricordo nostalgico della gloria passata, quando come portiere in livrea apparteneva a suo modo al mondo imperiale, era  un tassello dell’ordine mondiale che gli Asburgo assicuravano ai loro sudditi. Vive con la moglie, il figlio epilettico e l’arcigna cognata in un modesto alloggio di due locali, dopo aver dovuto venderne uno più grande. In un paese precipitato nella miseria, in preda all’inflazione galoppante, al signor Fiala non resta che la speranza di agire con oculatezza per garantire alla sua famiglia un modesto reddito: investe tutti i suoi risparmi in una polizza assicurativa.

Ma il premio può essere pagato solo dopo una certa data e l’uomo è malato ai polmoni. Decide di farsi ricoverare all’ospedale e la narrazione è, d’ora in poi, il resoconto della sua degenza e della sua morte. I medici prospettano alla moglie una fine rapida per suo marito, affetto da numerose malattie. Le cose sembrano precipitare, ma il moribondo riprende vita e si ostina a non morire. I suoi parenti attendono. Due giorni dopo la data che si era prefissa, quella della scadenza dell’assicurazione, il signor Fiala muore, in apparenza uomo sottomesso al destino, in realtà capace di una grande capacità di resistenza.

 

Gli scrittori considerati danno vita a questi e altri personaggi (chi non ricorda la figura di Andreas, il santo bevitore di Roth?) non integrati, solitari, ma portatori di un significato che va oltre le loro vicende. Si potrebbe anche dire portatori di speranza.