Il fatto che il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, abbia deciso di venire a Milano per dar vita ad una celebrazione imprevista – “aggiuntiva” se non “alternativa” – del 25 aprile rappresenta indubbiamente un tentativo di riportare la Festa della Liberazione in un quadro di unità nazionale in cui la memoria dovrebbe mettere a fuoco, senza troppa retorica, un sincero e motivato sentimento di affetto e di identità verso il sistema democratico. Una democrazia frutto di sacrifici e di pluralismo in cui gli italiani hanno cercato di rivendicare orgogliose continuità e radicali rotture con la precedente storia nazionale.
Nel ricordo e nella celebrazione confluiscono tre momenti diversi: la Resistenza, la Liberazione, la Costituzione. Per la verità proprio la Liberazione è quello che il 25 aprile ha ormai messo in secondo piano se non del tutto cancellato in quanto la vittoria militare vide protagonisti gli Alleati. Il riconoscimento verso gli Alleati era centrale all’epoca. Così Palmiro Togliatti il 29 dicembre 1945 parlava dalla tribuna del congresso ricostitutivo del Partito comunista italiano: “Ricorderemo in eterno i soldati e gli ufficiali inglesi, degli Stati Uniti, della Francia, dell’Africa del sud, dell’Australia, del Brasile, i quali hanno lasciato la loro vita o versato il sangue loro per la liberazione del suolo della nostra patria. Il loro nome vivrà nel cuore del nostro popolo”. All’epoca era al governo, ma successivamente, dopo la rottura con De Gasperi e Saragat, il “ricorderemo in eterno” svanì e Togliatti dall’opposizione indicò sempre più gli Alleati come nemici della Resistenza: “Forze militari di Stati – così il segretario del Pci li definì alla Camera il 10 giugno 1948 – i quali erano e sono impegnati a mantenere in piedi le strutture capitalistiche e il dominio dell’imperialismo”.
Ha così prevalso una storiografia tesa ad espellere gli Alleati dalla lotta che ha condotto alla Liberazione. Una mutilazione che si è parallelamente estesa alla Resistenza nel senso che dalla immagine degli italiani che hanno combattuto contro Hitler e Mussolini sono stati cancellati i militari e più in generale tutte le formazioni non filocomuniste. Rimasero principalmente in campo i comunisti che accettavano al massimo il ricordo degli azionisti (spazzati via nelle prime libere elezioni del 1946). Nessuno ha più ricordato i capi politici e militari (Alfredo Pizzoni, presidente del Cln Alta Italia, e il generale Raffaele Cadorna, comandante del Corpo Volontari della Libertà a cui facevano capo le formazioni partigiane). Numerose figure tra le più importanti ed eroiche sono state estromesse dalla memoria resistenziale: basti pensare al colonnello Giuseppe Cordero di Montezemolo che animò la Resistenza clandestina a Roma e che fu fucilato alle Fosse Ardeatine o alle imprese di Edgardo Sogno (a cui facevano capo le Brigate “Franchi”).
È così che si è arrivati a trasformare la stessa Costituzione in un’arma di divisione dando vita a quel che Giuseppe Dossetti esaltava come “partito della Costituzione” che pretende di identificare la Carta – paternità e valori – con l’intesa catto-comunista (più singoli socialisti ed azionisti).
È evidente che rievocare Liberazione, Resistenza e Costituzione per disegnare una “unità nazionale” nel segno della contrapposizione agli Alleati occidentali, ai militari italiani e alle componenti che non furono filocomuniste nel dopoguerra italiano sfocia nella esasperata divisione e – elemento non secondario – nella più ardita e strumentale manipolazione dei fatti storici.
Quest’opera di appropriazione e di divisione è negli ultimi tempi diventata più traumatica per due ragioni. Primo: perché sull’onda di “Mani pulite” nel discredito dei partiti che hanno governato l’Italia – “salvando”, insieme al Pci, sinistra Psi e sinistra Dc – si è cristallizzata la falsificazione secondo cui – come scrisse lo storico di sinistra Nicola Tranfaglia – “azionisti e comunisti furono le forze fondamentali che riportarono l’Italia alla democrazia”.
La Resistenza è stata quindi immaginata come “tradita” dal dopoguerra insegnando il fascismo come figlio dell’Italia liberale e padre dell’Italia democristiana e dipingendo la ricostruzione democratica come restaurazione capitalistica e spoliazione di classe. Secondo: se in passato il primato catto-comunista nella eredità della Resistenza almeno si spalmava in modo trasversale su maggioranza e opposizione e comunque poteva svolgere anche una funzione di coesione sia pur molto selettiva, con l’avvento del maggioritario l’intera comunità che si autoeleggeva “Super Io” nazionale in nome dell’antifascismo è finita tutta da una parte tacciando di neofascismo lo schieramento avversario.
È così che per celebrare la Liberazione sono stati coinvolti dall’Anpi i presidenti del Consiglio, del Senato e della Camera solo quando erano di sinistra. Oggi, dopo che ha vinto il centro-destra, nessuno di essi è chiamato dall’Anpi. Le contestazioni verso i rappresentanti di Comune, Provincia e Regione conquistati dal centro-destra sono definite dagli pseudo partigiani “fischi democratici”.
L’uso dell’antifascismo per attaccare chi ha vinto le elezioni e la rappresentazione della maggioranza dei cittadini come manipolati o insensibili ai valori democratici ha provocato un senso di lontananza nei confronti di una Resistenza tutta a guida comunista e brandita polemicamente contro chi non è di sinistra. A ciò si aggiunge il fatto che la caduta del comunismo ha inevitabilmente suscitato una rilettura critica di quanto fatto dai comunisti anche in Italia. I partiti di sinistra bollano ciò come “revisionismo”, ma è un fenomeno storiografico mondiale.
Quest’anno il 25 aprile si è pertanto delineato a Milano come un appuntamento di divisione e di polemica.
Il “Comitato Antifascista” che promuove il corteo e sceglie gli oratori è infatti gestito con la presenza solo dei partiti di opposizione ed inoltre si è spaccato anche al proprio interno su un documento presentato da Uil e Cisl che intendeva evitare la strumentalizzazione antigovernativa. Al contrario Anpi, Cgil e partiti (di sinistra) hanno insistito per una “chiassata” antiberlusconiana quasi di rivincita per il recente risultato elettorale: la crisi economica non rientra in un fenomeno internazionale ed è attribuita alla politica del governo, la democrazia è in pericolo, non tutte le istituzioni vanno difese (e cioè: sì la Corte costituzionale, no la Presidenza del Consiglio), rifiuto di appello alla liberazione dei detenuti politici perché implicherebbe una critica della dittatura cubana. Risultato: il segretario della Cisl, Raffaele Bonanni, a cui quest’anno toccava parlare in rappresentanza unitaria dei sindacati ha rifiutato di venire.
È in questo contesto che va vista la decisione di Napolitano di venire a Milano. Già l’anno scorso il Presidente della Repubblica aveva svelenito il 25 aprile riabilitando il ruolo dei militari italiani nella Resistenza “in passato – egli disse – tenuto in ombra”. E Silvio Berlusconi assecondò questo sforzo andando a celebrare il 25 aprile ad Onna.
Ora Napolitano è intervenuto mettendo insieme sia Anpi sia Comune di Milano nel promuovere la celebrazione di sabato 24 aprile al Teatro alla Scala. Nell’occasione ha invitato personalmente il presidente della Regione Roberto Formigoni e quella mattina incontrerà il presidente della Provincia Guido Podestà. Come è noto Berlusconi, Formigoni, Moratti e Podestà sono i bersagli dei “fischi democratici” che si stanno organizzando per il corteo.
Napolitano viene a Milano per sottrarre il 25 aprile alle divisioni strumentali e ai veleni. La presenza rasserenatrice del Presidente della Repubblica potrebbe essere l’occasione per ripensare il modo di celebrare questa data a Milano, voltare pagina rispetto al passato dando vita a un rinnovato “Comitato antifascista” di cui facciano parte anche gli altri partiti – a cominciare da Pdl e Udc – insieme a Comune, Provincia e Regione affinché si celebrino e si meditino Resistenza, Liberazione e Costituzione in modo civile e non come “guerra civile” senza fine.