A leggere le ultime cronache, scarse per la verità, che hanno accompagnato i giorni precedenti ai festeggiamenti del 25 aprile balzano agli occhi almeno due notizie decisamente di basso profilo. Da un lato, la diatriba trevigiana, sinfonico-simbolica, sui canti del 25 aprile, dall’altro lato, la crescita impetuosa degli iscritti all’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia, secondo Repubblica un «boom mai visto», dovuto «alla carica dei partigiani junior», ovvero i giovani e giovanissimi che hanno deciso di aderire all’Anpi. Tutto qui? Sì tutto qui. Le polemiche infuocate degli ultimi anni sembrano aver lasciato il passo a litigi futili o ad enfatizzazioni eccessive.
Eppure va sottolineato che il 25 aprile non è sempre stato vissuto allo stesso modo. Discussioni e lacerazioni, scatti euforici e ritirate improvvise sono sempre state all’ordine del giorno. All’indomani dell’istituzione della festa nazionale già si potevano rilevare i primi conflitti. Sebbene istituita nel 1946, infatti, fu solamente nel 1950 che, per la prima volta, le più alte cariche dello Stato, a partire dal Presidente della Repubblica Luigi Einaudi, furono presenti alla celebrazioni.
E per tutti gli anni Cinquanta fu una celebrazione in tono minore. È solamente nel decennio successivo, a partire dai fatti del luglio ’60, dalle manifestazioni di Genova e dal governo Tambroni, che il paradigma antifascista e le celebrazioni del 25 aprile acquistano una centralità politico-culturale decisiva nel discorso pubblico nazionale. Centralità enfatizzata e, al tempo stesso, contesa come, ad esempio, nell’anniversario del trentennale della resistenza, nel 1975, quando ebbero inizio i cortei alternativi organizzati dall’ultrasinistra in nome di una “resistenza tradita”.
La stanca ritualità degli anni ’80, scandita dalle presenze ufficiali di ministri e forze dell’ordine, è stata poi superata, a partire dal 25 aprile del 1994, da una nuova fase delle celebrazioni segnate dal ritorno di fiamma di un nuovo antifascismo, dovuto alla presenza sulla scena politica di nuovi attori politici che, in qualche modo, si legavano più o meno direttamente al fascismo richiamandone alcuni caratteri politici e simbolici.
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A tutto questo si combinava, sempre negli anni ’90, l’emergere di un’intensa discussione intellettuale che, impegnando accademici di rango, ad esempio come Aga Rossi, Pavone e Rusconi, o giornalisti famosi, come Pansa, partiva da un tentativo di ridefinizione molto più ampia di resistenza, da quella dei militari a quella “passiva” dei cittadini, e si spostava rapidamente al concetto di guerra civile, termine tradizionalmente caro alla pubblicistica della destra e sdoganato paradossalmente da un intellettuale di sinistra come Pavone dopo che era rimasto per decenni ai margini della discussione pubblica.
Tuttavia, uno dei punti decisivi delle controversie risiede proprio nel giorno scelto per la celebrazione, il 25 aprile. Come si sa, sin dall’inizio, non fu affatto scontato che fosse proprio quella data ad indicare il momento di redenzione dalla fine della guerra e dalla dittatura. Si sarebbe potuto optare per l’8 maggio che segnava la fine del conflitto mondiale o per il 2 maggio, anniversario della cessazione della guerra. Invece, venne scelto il 25 aprile, ovvero il giorno in cui il Clnai proclamò l’insurrezione nazionale nelle grandi città del Nord Italia.
E fu il deputato del Pci Giorgio Amendola, nel 1945, che in un’accalorata lettera ad Alcide De Gasperi convinse lo statista trentino e il governo d’unità nazionale ad accettare la proposta che fu poi trasformata rapidamente in un decreto esecutivo. I motivi della proposta amendoliana, come ha sottolineato in un saggio Maurizio Ridolfi, erano formalmente due: da un lato, enfatizzare l’azione del Cln avrebbe potuto avere dei riscontri positivi nella definizione del trattato di pace; dall’altro lato, trasformare la proclamazione dell’insurrezione nazionale in un mito fondativo significava legittimare non solo il Cln ma i soggetti politici della resistenza, ovvero i partiti, come costruttori di una nuova Italia.
In realtà, l’elevazione della resistenza a mito fondativo significava sostanzialmente una legittimazione politica soprattutto per il partito di Amendola, il Pci, che, seppur ideologicamente antisistema e legato a filo doppio, simbolicamente e politicamente, all’Urss, ovvero la superpotenza nemica, stava costruendo la sua nuova veste identitaria e la sua politica culturale proprio sull’essere il prodotto di una lunga tradizione nazionale.
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Il culto degli eroi e dei martiri della resistenza assumeva una necessità politico-pubblica per il Pci che tendeva a presentarsi come un partito nazionale legato, al tempo stesso, alla tradizione nazional-risorgimentale, all’internazionalismo del movimento operaio e, infine, al mito-modello sovietico che, almeno fino al 1956, toccò delle vette insuperate di fideismo millenarista e di fiducia acritica nei confronti della terra del socialismo realizzato.
Di tutt’altro tenore, invece, era la concezione e il discorso pubblico sulla resistenza elaborato dalla Democrazia Cristiana e, in generale, dai cattolici. La Dc, infatti, rifletteva il paradigma neoguelfo dell’Italia come “nazione cattolica” e secondo De Gasperi era portatrice di una missione salvifica per il Paese: «Ho voluto salvare la compattezza del Partito – disse lo statista di Pieve Tesino nell’agosto del 1945 al Consiglio nazionale – non perché è un Partito, ma perché il nostro partito è la salvezza d’Italia». In questo contesto, la resistenza assumeva, seppur all’interno di una rottura violenta, il risultato di uno sviluppo unitario e conciliatorista.
All’indomani della fine del secondo conflitto mondiale, come è stato dimostrato recentemente da un giovane storico, Paolo Acanfora, la Dc seppur tra declinazioni politiche, umori e sensibilità differenti legava l’interpretazione della resistenza a quella del risorgimento incompiuto, identificando nell’idealismo risorgimentale un punto di contatto tra il processo di unità nazionale e la resistenza. Don Sturzo, nel 1949, asserì che l’incompiutezza del risorgimento nella costruzione della coscienza nazionale «intorbidita da un anticlericalismo massonico» veniva adesso rinvigorita dal «secondo risorgimento».
Nel 1951 la Segreteria politica della Dc per sottolineare il contributo che il cattolicesimo politico aveva fornito alla resistenza invitava i dirigenti e i militanti a raccogliere «l’elenco dei nostri militari e morti nei lager». Emblematico, da questo punto di vista, anche il bollettino politico – citato sempre nel saggio di Acanfora – che l’ufficio di propaganda della Dc forniva ai propri militanti come slogan politico: «25 aprile 1945: festa della Resistenza contro la dittatura fascista. 18 aprile 1948: vittoria dell’Italia contro il pericolo bolscevico».
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Rispetto al mito palingenetico elaborato dalle sinistre il significato che la Dc attribuiva alla resistenza era, pertanto, ben diverso. In questa declinazione, infatti, la resistenza era legata a filo doppio all’idea di “civiltà cattolica” e di “nazione cattolica” e assumeva un significato di libertà contro ogni forma di totalitarismo perché vista in una chiave di “pacificazione nazionale”. La resistenza per i cattolici fu essenzialmente una lotta ingaggiata dallo «spirito di libertà» contro «la tirannide», disse De Gasperi nel 1951.
Alcune citazioni, tratte da un saggio di Roberto Chiarini sulla memoria del 25 aprile, sono doverose. La resistenza, secondo Paolo Emilio Taviani, fu la «ribellione dell’oppresso contro l’oppressore» e rappresentò – secondo un articolo apparso, nel 1955, su Civitas, il periodico della Dc – una «rivolta morale» dettata «dall’amore verso la propria terra». In un’omelia nel decennale del 25 aprile, l’arcivescovo di Milano, Giambattista Montini, sostenne che la resistenza fu anche il lievito di alcune idee «religiose», principalmente «l’idea di libertà».
La libertà di Cristo che animò i cattolici della Dc clandestina che parteciparono alla lotta di liberazione. In definitiva, la resistenza fu soprattutto una “resistenza subita” e imposta da altri. «La guerra civile che insanguinò l’Italia – si poteva leggere in uno scritto del 1955 – ed intorbidò le coscienze di tanti italiani noi non la volemmo. Ci fu imposta dal tortuoso disegno tedesco e dal servilismo delle riesumate larve fasciste: noi la subimmo».
Oggi la discussione sulla resistenza appare scarsa e non sembra più incidere, come un tempo, sul discorso pubblico nazionale, se non attraverso notizie di second’ordine, quasi tragicomiche, come quelle sui “partigiani junior” dell’Anpi e sulla diatriba musical-politica sulla Canzone del Piave o Bella ciao. Certamente questa situazione di stallo rappresenta un segno tangibile di una ritualità stanca e accucciata su stessa. Ma non solo. Probabilmente è anche la spia del venir meno di una risorsa simbolica per la sinistra che, da sempre, ne ha fatto una bandiera identitaria del proprio patrimonio culturale.