I due sostantivi che dànno il titolo al libro di Giulio Guidorizzi, Ai confini dell’anima. I Greci e la follia (Raffaello Cortina Editore, Milano, 2010) si riferiscono entrambi a due concetti molto impegnativi per l’uomo greco: l’anima fu oggetto di riflessione in ogni epoca (Omero la rappresenta come un’entità sfuggente simile al fumo), e “confine” è una parola chiave per la cultura greca, che percepisce in modo persino esasperato il senso del limite: in quel mosaico dall’equilibrio instabile che è l’universo, il superamento del limite stabilito per ogni creatura (uomo o dio) può portare a un baratro di conseguenze imprevedibili, fino all’annientamento di intere generazioni: è il peccato di hybris, la trasgressione che non ha rimedio. Il sottotitolo invece sembra riduttivo. Il libro si occupa di una sfera di fenomeni assai più ampia della follia vera e propria. Vi sono descritte esperienze che sono piuttosto da ritenere come stati di transitorio turbamento delle facoltà mentali o che si collocano in una zona di confine ai limiti della razionalità.
Come si legge subito all’inizio, «Per i Greci la follia non fu solo il baratro buio della ragione, ma anche l’incontro con sfere nascoste della mente e con una dimensione dalla quale un essere umano resta escluso finché la coscienza non lo abbandona». Platone, al quale è dedicato un’ampia sezione del libro, distingue nel Fedro tra una follia patologica e una follia benefica che permette di sconfinare in zone irraggiungibili dalla ragione. La prima (ánoia, non-pensiero) può nascere da alterazioni fisiche o mentali e deve essere curata coi provvedimenti opportuni. Alla seconda sono legate forme di esperienze che conducono l’anima dell’uomo a uscire da sé (ék-stasis, la condizione di chi è fuori di sé) fino a vedere cose che non vedrebbe quando è nel pieno delle sue facoltà mentali: tali sono per esempio l’ebbrezza, l’innamoramento, l’emozione della poesia, l’estasi indotta dalla divinità (enthousiasmòs).
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La cultura greca è assai più complessa di quanto potrebbe credere il visitatore che resta affascinato dalle bellezze del Partenone o degli edifici disseminati lungo la Valle dei Templi. I Greci hanno donato alla cultura occidentale il lógos e sulla base di questo hanno costruito una sapienza (sophia) che avrebbe segnato i secoli avvenire. Per secoli Platone e Aristotele aiutarono i pensatori cristiani (e anche molti islamici) a prendere coscienza di sé e della propria cultura. Ma l’uomo greco percepisce anche, sia dentro di sé sia nella realtà che lo circonda, l’esistenza di forze irrazionali che lo condizionano e lo sommergono. Nel pantheon greco vi è posto per Apollo e Atena, gli dèi che rappresentano la bellezza e la sapienza, ma vi è posto anche per divinità maligne e mostri, che si divertono a traviare l’uomo e a condurlo alla perdizione e all’orrore. Vi è Ate, che acceca l’uomo e ne annienta le capacità di decisione, o Lyssa, la dea del furore, che induce la follia in un eroe forte e buono come Eracle e gli fa uccidere la moglie e i figlioletti. E la stessa Atena, la dea della sapienza, può portare alla follia Aiace, fino a fargli commettere azioni che ne determinano il disonore e infine al suicidio.
Un poeta tragico, Sofocle, inizia uno dei suoi cori più famosi con le parole Pollà tà deiná, “Vi sono molte cose tremende” (deinà, forze che generano un sentimento fra la meraviglia e il terrore), e più tremenda di tutte è l’uomo, che è, in piccolo, come lo specchio delle forze che agitano l’universo. Vi sono nella natura poteri oscuri o sconosciuti. Nella città greca operano anche i Coribanti con le loro sfrenate e rumorose danze iniziatiche, o i guaritori profeti (iatromanti), o gli indovini che vanno in estasi e in trance, o i seguaci di culti feroci durante i quali si squartano animali che vengono divorati crudi.
Pur valorizzata ed esplorata fin nelle sue estreme possibilità, la razionalità umana non è in grado di dare risposte definitive su molte domande che l’uomo si fa. Questo rende inquieto l’uomo greco e lo spinge a valorizzare esperienze in cui sembra che la ragione possa oltrepassare, almeno temporaneamente, i confini che la natura le ha imposto. Vi sono circostanze in cui l’uomo vive sensazioni particolari, come il guerriero omerico che nel momento di affrontare la battaglia è preso da un’esaltazione (ménos) che gli accresce le forze in modo incredibile. Le esperienze di estasi e di trance sono spesso dolorose (la profetessa di Delfi prova dolore fisico nel momento in cui il dio la fa profetare), e il più delle volte chi le prova non è poi in grado di ricordarle. Vi furono personaggi privilegiati, come Epimenide o Aristea, che ebbero l’opportunità di provare in modo eccezionale queste esperienze, ma a nessuno è preclusa una qualche forma di esperienza estatica. Il problema dunque sta nell’incanalare queste forme di conoscenza alternativa rendendole nel contempo utili per la società.
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Qui sta il punto critico. L’ideale greco della sophrosýne, il pensiero retto ed equilibrato, può divenire grettezza o addirittura pretesa, se non addirittura manipolazione della verità (non a caso san Paolo proporrà una polemica molto forte contro la sophia pagana e i suoi limiti). Ma anche le forme di sophia alternativa presentano rischi. L’apice di questo dissidio tra i due differenti modi di conoscere e concepire la realtà è nelle Baccanti di Euripide, un dramma affascinante e misterioso, che mette in scena il contrasto tra una “sapienza che non è sapienza” e un culto religioso basato sull’esaltazione mistica: le donne di Tebe si lasciano trascinare dal culto di Dioniso, dio giovane e potente, ma questo coinvolgimento sfrenato le porta alla follia e all’orrore dell’omicidio. La chiusa del libro offre una chiave di lettura importante: «Entrare e uscire dalla follia non è indolore. Il dolore è il terribile compagno di strada della pazzia. Dioniso ha redento con le sue danze estatiche, Dioniso ha ucciso: è un dio (come dice Euripide) “terribile e dolcissimo”». In questo connubio di dolcezza e di orrore consiste l’aspetto problematico di tutta la vicenda: una delle supreme contraddizioni dell’esperienza greca.
Ci permettiamo un paio di osservazioni critiche. L’epigrafe all’inizio del primo capitolo è una frase di Ippocrate in cui si dice che «tutto è divino e tutto è umano». Non sempre il testo tiene conto del fatto che la dimensione religiosa costituisce un elemento sempre essenziale del pensiero greco. Pensare di affrontare coi soli strumenti della psicoanalisi e dell’etnologia la cultura greca (pag. 165) può essere fuorviante. Il costante colloquio fra uomini e divinità che si ha nei poemi omerici non è frutto di stati allucinatori, ma diretta conseguenza del desiderio che il greco ha in ogni epoca di incontrare il trascendente: oltre tutto il riferimento è a un testo poetico che narra le vicende di eroi e personaggi del mito, non al resoconto di una seduta di psicanalisi. Il libro non tiene conto della percezione del divino che anima l’uomo antico, il quale tende a vedere ovunque (o desidererebbe ardentemente vedere) l’operare di una divinità.
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L’idea che la civiltà occidentale abbia rimosso la trance e che in questo abbia giocato un ruolo fondamentale il Cristianesimo (p. 163) non convince. Anche nel Cristianesimo vi è una lunga tradizione di estasi e molta attenzione per il paranormale: semplicemente, il Cristianesimo ha come punto di riferimento e criterio di giudizio la Rivelazione, e la Chiesa impone una ovvia vigilanza di fronte a fenomeni che possono provenire da forze oscure o diaboliche e che possono seminare confusione e incertezza, distinguendo tra tali esperienze di origine oscura e l’estasi dei mistici. Rimandiamo per più ampie notizie al bel libro di F.-M. Dermine, Carismatici, sensitivi e medium, Bologna, esd, 2010, in particolare il cap. V, Il paranormale cristiano.