Ci sono momenti della storia in cui la filosofia diventa preda di questioni inutili. Così si dice, e perdoneranno i medievalisti, della scolastica. Ovviamente è un giudizio falso, e – ancor più ovviamente – alcuni dei problemi ritenuti senza significato avevano un profondo senso logico. Per esempio, la celebre questione di quanti angeli possano stare su una capocchia di spillo, appare inutile. Tuttavia, essa nasconde il profondo enigma matematico della continuità, i cui nessi sono stati messi in luce da Cantor nel XIX secolo e le cui conseguenze filosofiche rimangono ancora da esplorare.
Però, evidentemente, la corruzione di questo genere di questioni provocò più tardi – nell’apogeo dello scotismo – un pullulare di tecnicismi la cui connessione con la vita reale e con il dramma intellettuale sorgivo era ormai persa. Da qui il senso dispregiativo del termine.
Mi è capitato di assistere al processo di selezione del professore di metafisica di un’università americana. Il processo è meraviglioso per noi italiani: selezione di tre curriculum fra tutti quelli che hanno fatto domanda in base a credenziali di pubblicazioni e di raccomandazioni (pubbliche e firmate), presentazione di ciascuno dei candidati al consiglio di facoltà, lezione di ciascuno a cui tutti i professori devono essere presenti, e votazione finale da parte del consiglio. Il migliore vince.
Paradiso, inutile dirlo. Ma non discutiamo di questo. Discutiamo invece del fatto che i tre candidati, tutti provenenti dalle più celebri università statunitensi, hanno fatto le loro lezioni dimostrando l’inequivocabile marchio di una “scolastica” della filosofia analitica.
Il primo candidato ha discusso del “presentismo”, ovvero: ci sono tutte e tre le dimensioni del tempo o c’è solo il presente? Soluzione: si definisce il tempo come un insieme di proposizioni logiche, le proposizioni logiche non hanno svolgimento, ergo, c’è solo il presente.
Il secondo ha discusso del fatto che gli oggetti composti siano o meno degli oggetti. La torre Eiffel con un naso attaccato, è un oggetto o no? Soluzione: data una definizione di oggetto, si accerta che quel composto non è un oggetto, tuttavia ci sono anche livelli vaghi (non perfettamente composti) di oggetti che si chiamano proto-oggetti.
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Il terzo ha discusso dello sbigottimento che nasce a riguardo della natura dei numeri. Perché rimaniamo sbigottiti davanti alla natura dei numeri? Data la definizione di “sbiggotimento” si valuta quanto e come la natura dei numeri sbigottisca.
Gli sbigottiti a dire il vero eravamo noi prof, inclusi quelli di stretta appartenenza analitica. Certo, anche questi problemi – come gli angeli sullo spillo – possono nascondere gravi questioni logiche, ma il problema è che i candidati non le hanno affrontate e – soprattutto – non erano affatto consapevoli né della loro esistenza né del loro interesse, evitando ogni domanda che non rientrasse nei postulati di partenza. Tutti e tre partivano da una definizione e cercavano di applicarla. Solo che le definizioni sono sempre o troppo larghe o troppo strette e ciò crea dei problemi. Ma sono problemi interni alla definizione scelta.
Eppure la filosofia analitica era cominciata con la drammatica ricerca di ciò che è sensato e non sensato, con il tentativo di fondare la filosofia – così importante per la conoscenza umana – su una solida base logica ed evitare che essa coincida con uno stato d’animo o con un’arbitraria fissazione, con la passione per risultati che andassero d’accordo con quelli delle altre scienze e che rispettassero il senso comune. Ora invece che discutere dei singoli problemi – compresa la natura del tempo, l’ontologia degli oggetti, l’essenza dei numeri – per la loro connessione con quella base logica, che rimane un’ipotesi da verificare, l’analitica si è avviluppata in un gergo “scolastico”, ormai lontana dalla pratica reale della scienza e dagli sviluppi attuali della matematica. Ferma all’insiemistica di inizio secolo scorso, si dibatte su domande che danno per presupposti tutti i postulati di partenza, accettando che la filosofia non c’entri con la “famigerata” realtà e sia solo un gioco di una certa logica basata su alcune definizioni, senza preoccuparsi di affondare le proprie tesi né nella ricerca scientifica né nel senso comune.
Uno dei candidati alla domanda “come ha inciso sulla tua vita questo studio della filosofia?” ha risposto: “In nessun modo, mi ha insegnato che fare filosofia è veramente difficile”. E allora perché farla?