Il trombettiere appare da una finestrella della torre più alta ed esegue una melodia per tutti quelli che si trovano giù nella piazza, ma le note si interrompono con un acuto straziante. Una antica leggenda racconta che una freccia ha trapassato il collo di un trombettiere che annunciava l’attacco nemico alla città. La finestra si richiude e nasconde, con discrezione, questo suggestivo simbolo della Polonia e di Cracovia, la città dove si impara, come in un’aula scolastica, l’amore per la verità dell’arte.
È qui, in questa nazione ferita, che il ventenne Karol Wojtyla partecipa alle prove del Miguel Mañara, quando alcuni arresti all’interno del gruppo rendono impossibile continuare l’allestimento. La sua singolare dedizione al teatro lo porta poi a confrontarsi con la regia di opere di Norwid e di Krasinski. Come attore partecipa alla messa in scena di diversi drammi presso la scuola di Kalvaria, dove interpreta anche il difficile ruolo di Emone nell’Antigone di Sofocle.
Frequenta spesso i teatri di Cracovia per vedere da vicino, sul palco, i capolavori della tradizione. Prende parte alle attività dello Studio 39, una scuola di arte drammatica che prepara attori per allestire grandi spettacoli all’aperto. E, nell’agosto del 1941, durante l’occupazione, partecipa ad una riunione segreta nell’appartamento dei signori Debowski, dove nasce il Teatro Rapsodico che verrà chiamato Teatro Nostro. Nell’ottobre del 1942 entra nel seminario clandestino di Cracovia. Lascia perciò l’attività teatrale e i suoi amici teatranti ma, di fatto, non li abbandonerà mai più.
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Si interesserà sempre in prima persona degli allestimenti, dei passi umani e delle scoperte di quei compagni d’avventura che, in quell’appartamento, avevano cominciato a gettare le basi di un nuovo teatro. Consiglia loro i testi da fare, tra questi anche La Divina Commedia di Dante. Si informa dei fatti di tutti i giorni, dei loro successi, delle loro scoperte e interviene quando si creano forti tensioni. Caldeggia l’attività di un teatro che è un servizio alla verità attraverso la parola dei poeti, uno strumento per dare voce clandestina alla grande letteratura polacca (non solo teatrale) e quindi contribuire a mantenere viva una tradizione nell’istante storico in cui stava per essere travolta.
Studia allestimenti essenziali, dove l’assenza di movimento e la totale centralità dell’attore sono finalizzati a «distruggere finalmente le pareti del teatro, le strettoie dei canoni e degli schemi, delle convenzioni, in modo che niente limiti l’immaginazione dello spettatore, in modo che sia sufficiente una parola dell’artista sulla scena, per condurre la platea in un altro spazio, in un altro tempo».
Così scrive nel 1948 all’amico Mieczyslaw Kotlarczyk, anima e leader del “loro” teatro di Cracovia. Scriverà come seminarista, come sacerdote, come Cardinale e come Papa, firmandosi Lolek e chiamandolo affettuosamente Miecio. Con lui sceglie la forma epistolare per alimentare un ininterrotto attaccamento a quelli dell’appartamento dei Debowski. Ha bisogno di loro: «… fammi sapere degli altri nostri conoscenti. E per quanto riguarda il lavoro? L’università è chiusa. Il teatro sta in piedi. Affido alla Provvidenza te e i tuoi. Bacio le mani». E attinge spunti di conforto dalla loro baldanza: «ho trovato un amico che è simile a noi; un folle Homo Theatralis, anima gemella». Attraverso il Teatro Rapsodico vive l’ininterrotta opportunità di guardare attori all’opera e di apprendere l’assoluta forza evocativa del teatro. E, quando l’amico Miecio muore d’infarto nel febbraio del 1978, il Cardinale Karol Wojtyla presiede ai suoi funerali.
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Neppure dopo questo improvviso lutto tralascia la dedizione al teatro. Scrive originali opere teatrali e straordinarie raccolte di poesie, note oggi in tutto il mondo. E’ a Roma nel 1971, ma ancora riconoscente dell’insegnamento ricevuto alla scuola dei suoi amici scrive che «il palcoscenico si è messo a disposizione della parola di vita. Tuttavia la parola, la viva parola, rimane sempre il compito centrale e la conquista fondamentale del teatro».
Il futuro pontefice dedica al Teatro Rapsodico quattro saggi critici, comparsi su un settimanale polacco tra il 1952 e il ’61, dove studia e analizza l’Amleto. Sotto lo pseudonimo di Andrzej Jawien afferma che il teatro è specchio della vita e costringe, con la seducente carezza della finzione, a non evitare lo specchio della verità. Indagando tra le pagine del capolavoro di Shakespeare, Wojtyla sottolinea come nell’Amleto si assiste ad uno spettacolo nello spettacolo e che «gli attori, arrivati a Elsinor, danno alla corte del re e davanti ad Amleto una recita. Mettono in scena una finzione che invece è la verità. Il dramma interiore di Amleto si infrange di fronte allo specchio del teatro che smaschera e scopre la finzione».
È attraverso la finzione che la verità risponde al nostro elementare bisogno di bellezza. Questo è il teatro che Karol ha imparato dagli amici di Cracovia. E in questi articoli, fondamentali per comprenderne la forza pedagogica per la nostra cultura, dopo secoli di condanna della finzione teatrale e nel momento in cui il teatro si trasforma in puro spettacolo e in costante distrazione, Wojtyla ne riabilita ed esalta la vocazione, con un appello all’uomo contemporaneo, che è un monito di speranza lanciato profeticamente ad ogni angolo della terra «… che la sua Chiesa diventi Teatro e accenda in esso – nell’assemblea, come in un parlamento dell’arte nazionale, lo Spirito della Nazione…».