Chagall l’ebreo, Chagall il visionario, Chagall il russo che aveva scelto di vivere in Occidente. Ma soprattutto Chagall il pittore, l’unica categoria che comprendeva ogni aspetto della sua poliedrica personalità. L’ebreo russo Moshe Segal cambiò addirittura nome per integrarsi nel mondo occidentale, ha mantenuto fino all’ultimo istante della sua vita questo sguardo meravigliato sulla realtà. Una vita lunga la sua, giunta fino a 98 anni. Settanta dei quali passati lontano dalla sua patria, l’amata Vitebsk (una piccola città dell’attuale Bielorussia).
Nato nel 1887 e morto nel 1985 nel paese di Saint-Paul-de-Vence, aveva scoperto l’arte quasi per caso, come racconta nella sua autobiografia La mia vita. Un compagno di classe, in quinta, vede un suo disegno appeso nella stanza e gli dice: «Senti, ma tu sei dunque un vero artista?». Chagall tenta di farsi spiegare chi sia un artista, ma l’amico se ne va senza dire nulla. Per Chagall è una folgorazione, lo svelarsi della vocazione. Così il giovane ebreo di Vitebk si rammenta di aver visto in paese l’insegna di una scuola di pittura e si iscrive.
Da qui inizia una lunga carriera che lo porterà a San Pietroburgo, poi nella Parigi di Picasso e dei cubisti. Non sono questi i suoi punti di riferimento, bensì Renoir, Monet, Van Gogh, Gauguin; e soprattutto i maestri antichi che incontra nelle sale del Louvre: Rembrandt, Chardin, Gericault. A Parigi frequenta un gruppo di out-sider accomunati dalla provenienza straniera e alcuni anche dall’appartenenza al popolo ebraico, come Modigliani e Soutine. Parigi vuol dire per lui la scoperta del repertorio di immagini cristiane, che vede in gran copia nei musei e nelle chiese. Chagall aveva già infranto la regola ebraica che proibisce la raffigurazione dell’uomo e degli esseri viventi in genere, in ottemperanza al precetto contenuto in Deuteronomio 5, 8: “Non ti farai idolo né immagine alcuna di ciò che è lassù in cielo, né di ciò che è quaggiù sulla terra, né di ciò che è nelle acque sotto la terra”.
Aveva scelto la pittura, ma l’aveva riempita di simboli ebraici. Come il protagonista del romanzo di Chaim Potok (Il mio nome è Asher Lev) dipinge non tanto per la bellezza quanto per la verità, la verità di sé e del suo popolo al quale sempre dichiarerà di appartenere. È inseguendo la verità che Chagall incontra l’“ebreo” Cristo e tutto quello che da lui è derivato.
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Le sue tele si riempiono di immagini pescate con libertà dalla tradizione iconografica narrativa cristiana e da quella simbolista ebraica; Cristo in croce porta il tallet, lo scialle rituale per la preghiera, diventando emblema della persecuzione del popolo ebraico, il gallo ebraico che ha il potere della preveggenza ricorda ai cristiani il tradimento di Pietro, la sposa e lo sposo che sono il segno del patto tra Dio e il popolo d’Israele possono alludere all’interpretazione della Chiesa come sposa di Cristo.
Se la sua arte è profondamente religiosa, non è però arte sacra. Eccocosa ci dice l’artista stesso in proposito: “La fede religiosa è necessaria per l’artista? L’Arte, in generale, è un atto religioso. Ma sacra è l’Arte creata al di sopra degli interessi: gloria o altro bene materiale. […] L’arte mi sembra essere soprattutto uno stato d’animo” (Marc Chagall, Conferenza pronunciata a Chicago nel 1958)
In queste parole dell’amico Abram Efros, scritte nel 1918, si intravede il segreto di Chagall. “Nei racconti per bambini il legame preferito e più comune tra gli avvenimenti è l’espressione «all’improvviso», […]; l’espressione «all’improvviso» avverte l’ascoltatore che questo insieme onnipotente di possibilità sta ora per esplodere in una in una delle sue bizzarrie. Traduciamo questo «all’improvviso» nel linguaggio del visionario e otterremo «miracolo». Ma non «miracolo» nel senso di eccezione inconsueta e rarissima che viola le leggi della natura, bensì «miracolo» come elemento ordinario della quotidianità, «miracolo» che rifiuta la possibilità stessa di una «vita fuori dal miracolo» […]”. (A. Efros, Le stregonerie di Chagall, in Chagall, il teatro dei sogni, Milano, Mazzotta, 1994)
Dev’essere questo suo attaccamento tenace al dato della miracolosa quotidianità che ce lo rende prossimo, capace di dare forma alla nostra immaginazione nella pittura. Lasciamo alle sue parole l’ultimo pensiero:
Un giorno, io lo so,
mi accoglierai e della morte svanirà il ricordo
ma non l’amore,
e della vita svanirà il mistero
ma non l’incanto.
Ed al compagno delle mie paure
potrò mostrare finalmente quanto
– segretamente – io desideravo
che mi fosse accanto
nel giorno della Tua rivelazione.