Disporsi all’ascolto della voce dei grandi maestri è il nutrimento della cultura. Nella loro scia, si è aiutati a ritornare alle fonti da cui scaturisce la profondità di una parola che va all’essenza delle cose e le traduce in una proposta persuasiva per l’uomo che vive nel presente.

Se questo vale in generale per i classici del pensiero costruito sulla tradizione dell’avvenimento cristiano, vale a maggior ragione per coloro che, nel cuore dei nostri tempi moderni, hanno saputo rielaborarlo in forme capaci di far riecheggiare il fascino di una antica fecondità generatrice dentro l’orizzonte delle attese raccolte come eredità dal passato da cui noi veniamo.



Fra quanti più si sono distinti in questo compito decisivo, si colloca senza dubbio la figura del teologo Hans Urs von Balthasar. Dire “teologo” però significa introdurre una definizione ristrettiva: può far pensare a uno specialismo per addetti ai lavori. Certamente c’è anche uno spessore tecnico e in molti luoghi un certo grado di difficoltà che può ostacolare l’accesso alla piena fruizione di tutta la scrittura di un pensatore geniale e polivalente come lui è stato.



Ma nel mare sterminato di una produzione che ha avuto il suo esordio con la traduzione in tedesco della Scarpina di raso di Claudel, in cui gli studi sulla letteratura dell’età moderna sono stati scavalcati e inglobati dall’esegesi della patristica delle origini cristiane, ci sono anche molte opere brevi, di sintesi e riepilogative, che hanno il pregio di condensare nella semplicità di un frammento la ricchezza vertiginosa di prospettive che si diramano dentro l’architettura totale di una visione veramente sinfonica, costruita andando di pari passo con il progredire dell’esperienza vissuta in prima persona dal suo autore.



Una di queste operette “minime”, più facilmente abbordabili anche da noi comuni lettori, è Solo l’amore è credibile (1963; trad. it. Borla, 2006). In un centinaio scarso di pagine, il maestro di una nuova teologia mistica per i tempi moderni, cristocentrica e pienamente ecclesiale, si propone nientemeno che di far riemergere in primo piano “l’essenza del cristianesimo”. Il suo punto centrale viene ricondotto alla rivelazione stessa che Dio fa di sé, sullo sfondo dell’onesto riconoscimento che “questo centro riceve troppo scarsa considerazione nella corrente concezione cattolica”.

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Non possiamo che evocare a grandi linee lo stile di approccio a cui Balthasar introduce: tutto tradizionale nel suo impianto, e nello stesso tempo fresco, agile e nuovo nel suo modularsi secondo la mentalità e il linguaggio dell’oggi che ci è più vicino. Diciamo subito che l’accento fondamentale è messo sul dinamismo inesorabile della carità divina che si dispiega “scendendo nel gran smarrimento del mondo”, attraversando “tutte le tenebre” del distacco e dell’assunzione del male che si nasconde nella realtà del creato, fino al culmine del “cuore spezzato” di Gesù sulla croce, fino alla sua misteriosa “discesa negli inferi del sabato santo”.

 

La cosa grandiosa di questa ri-centratura sul mistero dell’amore che si offre eternamente messo in moto dalla pietà per il nostro niente è il suo sicuro ancoraggio oggettivo: qui l’evento cristiano perde ogni possibile alone residuo di sentimentalità patetica e visionaria, e ritrova la semplicità della sua aderenza alla struttura di fondo dell’Essere che si comunica rovesciandosi nel mondo e restituendolo salvato come dono, attraverso il Figlio, al Padre che lo genera. Solo così, in senso pieno, Dio si rivela come carità: “Deus charitas est”.

 

Inoltre, dal punto di vista dell’uomo che è chiamato a diventare testimone di questo fluire della misericordia di Dio dalla sorgente ultima che la alimenta, si sottolinea in modo risoluto l’idea che, con questo suo donarsi fino allo svuotamento di sé, Dio svela e rende condivisibile, come un ordine diverso di esperienza in cui mendicare umilmente di essere assorbiti, l’intima natura che lo costituisce. Nella disseminazione del suo amore commosso per l’uomo, Dio “si manifesta”. C’è una carica potentemente trasformatrice che si racchiude in questo dinamismo di processo che si compie nella storia dell’uomo (e che attraverso una lunga catena di mediazioni, di incontri e di testimonianze di santità può alla fine raggiungere anche noi).

 

La “manifestazione” dell’amore divino è nello stesso tempo la sua “esaltazione” e la sua “glorificazione”. Nell’“amore travolgente” di Cristo per l’uomo, assolutamente libero, disinteressato, si “irraggia la schiacciante maestà della gloria di Dio”. Cristo è l’“autoglorificazione dell’amore divino”. Tutto il linguaggio religioso di Balthasar sposa la retorica paradossale della “gloria” che “risplende” nel segno umano del suo opposto, fino all’apparente sconfitta della Passione, nel supremo “atto di sottomissione e di obbedienza del Figlio verso il Padre”, che è “per essenza amore”, amore spinto fino al suo massimo grado di libera assolutezza.

 

Con ogni evidenza qui Balthasar riprende l’idea centrale del suo pensiero maturo, su cui gravita la parte di esordio della sua opera massima, l’“estetica teologica” dei volumi di Gloria. Ma la densa ricchezza della dottrina si mantiene sempre congiunta con la realtà di una incarnazione cristi-forme dell’evento della redenzione, come una promessa di vita nuova e di speranza per tutti.

 

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Si capisce come mai Balthasar arrivi subito a sottolineare in che senso il cristianesimo “è prima di tutto un atto di Dio”. Solo che, diffondendosi nell’oscurità del non-amore, fino all’infimo livello della sua creatura, la carità di Dio si procura da sola il “grembo” umano in cui può annidarsi e, quando accolta, generare a sua volta una realtà nuova.

 

Al primato d’iniziativa dell’atto di Dio può “corrispondere”, “nella grazia”, il “fiat” della fede come “risposta umile e dimessa”. La fede che fiorisce come semplice resa all’evidenza, “davanti al mistero dell’amore di Dio” che fluisce dal suo centro e si spalanca fino a toccare l’umanità ferita che geme in attesa della sua rinascita.