Resterà. Non ci sono dubbi. E continuerà a fare male, a provocare e scuotere.

L’intelligenza poetica, disarmata e paradossale, onirica e materialista di Edoardo Sanguineti ha lasciato infatti nella cultura letteraria italiana un segno profondo, che rimarrà. Ha aperto, con la sua dissacrante e coltissima ironia, una ferita, di cui vano e sciocco sarebbe augurarsi la rimozione.



Fin dalle poesie della raccolta d’esordio (Laborintus, del 1956), Sanguineti ha sempre ribattuto, con ostinazione e coraggio, il medesimo problema: quello del rispecchiamento del reale nell’arte, non più proponibile nei termini della mimesi tradizionale. Quali potessero anzi essere gli strumenti più idonei per dire la verità, al cospetto di una crisi – a suo giudizio – drammatica, dilagante dal piano storico e sociale a quello estetico e linguistico, è stato il suo rovello. A fronte di questo mondo, fondato sulle merci e non sull’uomo, sulla nevrosi del soggetto e il regressivo esaurimento della sua fiducia nel prossimo, il poeta Sanguineti, con un gesto di elementare radicalità, si è ribellato. Alla palude infernale ha detto no, né – per antidoto – si è rimesso al rimpianto di un irreversibile passato.



La sua voce, ambigua e difficile, è stata quella d’un dissidente, spesso anarchico e irrazionale, altrimenti e simultaneamente ancorato ai suoi maestri: Freud e Brecht, Marx e Adorno, Jung e Lukàcs. Con essi, s’è provato a inventare una nuova maniera di scrivere, sovversiva e apocalittica, parendogli la lingua normale (per effetto, anche, della lezione di Gramsci) incapace di presa sul reale, e destinata fatalmente, invece, alla menzogna, al travestimento, all’involontaria tirannia. Su questo non ha avuto dubbi, mai: ogni atto linguistico, ogni parola, implicano una visione del mondo, una posizione di coscienza. E alla verità non s’arriva che per tramite d’un linguaggio autentico e vivo (Ideologia e linguaggio, non a caso, è il titolo di una sua fondamentale raccolta di saggi, apparsa per la prima volta nel 1965).



Clicca >> qui sotto per continuare l’articolo

 

Si situa lungo tale orbita la partecipazione alle esperienze della Neoavanguardia e del Gruppo 63: ugualmente tese, nei proclami, alla ricerca di una poesia vera, capace, cioè, di restituire il «nostro sentimento della realtà, ovvero… un accadere in cui possiamo ritrovarci» (Giuliani). Ne venne a Sanguineti, di fronte a una diagnosi perentoria ed esatta, il desiderio di sistematico sabotaggio delle forme letterarie tradizionali, a beneficio di una dizione informale o rivoluzionaria, che – sono le sue parole – «potesse davvero raggiungere l’impressione di effusione di un inconscio… selvaggio, incondito, tutt’altro che ben vestito, ma che piuttosto si scopre impudicamente, caoticamente, irrazionalmente».

 

A simili intenzioni o progetti conseguono (specie all’origine) risultati sostanzialmente anticomunicativi: strisce verbali balbettanti e autoreferenziali, incroci babelici di generi e idiomi, di fatto asemantici. La materia o consistenza dell’io è così ridotta alle sue pulsioni e sogni, o deliri: niente che non sia di provenienza biologica e fisica. Si erge su ciò, tuttavia, il primo nucleo di resistenza esplicitamente denunciato, e messo a tema: la famiglia, che a Sanguineti pare la cellula-base della società. Il luogo da cui muovere per una rifondazione, sostanzialmente pedagogica, della realtà; la vera e unica speranza contro l’alienazione.

 

L’ultimo Sanguineti (quello, esemplarmente, della raccolta Il gatto lupesco, del 2002), quando non gioca con la lingua (alla maniera già di Palazzeschi), guarda il mondo per il tramite dei suoi affetti coniugali. E allora la poesia si presta volontariamente alla registrazione meticolosa di piccoli «fatti veri», resi – mediante straniamento – epici e memorabili; l’utopia si riduce alla religione, ironica e malinconica, dei ricordi, degli aneddoti, delle pagine di diario. Accertato, con eroico acume, tutto l’intollerabile, cioè la bolgia di menzogne e illusioni dei nostri anni, la ricetta di Sanguineti non va più in là: non può che suggerire una specie di navigazione a vista, di attraversamento coatto, ma più divertito che sofferto, della vita, mancandogli, definitivamente, l’avvistamento d’un’altra orbita o riva.