Si può vivere di solo teatro, passarvi dentro un’intera giornata, farsela ritmare dalle sue leggi e rinunciare al sole e al cielo di una bellissima domenica di primavera? Il dubbio rimane, lungo lo scorrere delle ore, chiusi irrealmente in uno spazio artificialmente illuminato mentre fuori si rincorrono le nuvole. Ad ogni intervallo, usciti all’aperto, lo stridore si fa evidente.



Questa dunque è la cronaca dell’avventura di uno spettatore di fronte a un esperimento riuscito, quello del romanzo “I demoni” di Dostoevskij ridotto (parola sbagliata: c’era tutto intero) per la scena dal regista tedesco Peter Stein. E messo in scena dalle 11 alle 22:30, intervalli compresi, all’Hangar Bicocca di Milano per due week end prima di andare a Vienna, Amsterdam, Napoli, Ravenna, Atene, New York.



Stein, l’Oscar Mondadori del testo dostoevskiano alla mano, introduce, fa sedere, e suona la campana (ricordate le trombe di Bayreuth?) per richiamarci al nostro “lavoro” di pubblico alla fine di ogni intervallo. Poi comincia la sarabanda del racconto e dei personaggi. Il raffinato attore, la saporita parodia dell’intellettuale disossato, la durezza autorevole della generalessa, i giovani nichilisti cinici e introversi.

Ma il primo e più profondo sussulto ce lo danno l’intelligenza e il sarcasmo del grande scrittore russo. Stupisce pensare che dopo un simile ritratto, acido e tagliente, esatto fino al dettaglio, di un gruppo di giovani nichilisti in odore di rivoluzione datato 1870, il secolo che seguirà vi crederà così platealmente, così ciecamente da crearli in carne ed ossa. Eppure è proprio lì, nella negazione della radice evangelica della Santa Russia, che l’utopia salottiera divenne sistema, ideologia, e infine incarnata tragedia del ‘900.



 

Ma alle lucide asprezze antinichilste del grande russo, così splendenti ed esatte fin dal primo-monologo di Kirillov (Russo Alesi), Stein fa alternare, amplificandole, le venature ironiche e sarcastiche pure presenti nel romanzo. In questo perfettamente servito da attori completi e versatili, come la tagliente Varvara Petrovna di Maddalena Crippa, lo Stepàn Trofimovic di Elia Schilton, col suo faccione da Marx stralunato ed imbelle, l’elegantissimo Grigoreiev di Andrea Nicolini o la vibrante Lebjadkina di Pia Lanciotti. In lei, Maria, ancora una volta la "santa idiozia" di un personaggio dostevskijano afferma la visionaria verità della terra madre e santa, che può accogliere e abbracciare, se autentiche, le lacrime dell’uomo d’oggi.

 

Scorre la mattinata, comincia il pomeriggio – solo un’oretta per un pasto frugale – ed è finalmente l’ora di Stavrogin, l’eroe cattivo di Ivan Alovisio. Scorrono i quadri del romanzo: il duello fallito, il comizio del governatore, la riunione del collettivo rivoluzionario di provincia strumentalizzato dall’ambiguo rivoluzionario Petr Stepanovic (un acceso, persuasivo Alessandro Averone).

 

Chi ha vissuto gli anni Settanta rivede in quella parodia di rivoluzionari di fine Ottocento la parodia che ne furono a loro volta i sessantottini di casa nostra, con la loro presunzione di spiegarci il mondo. Ma dalla farsa alla tragedia la profezia dostevkijana va dritta a Lenin e al colpo di stato bolscevico, perfettamente antidemocratico e perfettamente riuscito, che sembra qui straordinariamente anticipato.

 

Stavrogin e il suo scherano dicono parole incredibilmente anticipatrici, orribilmente affascinanti e dolorosamente palingenetiche. E anche la folle somma di quei 100 milioni di morti richiesti dal crogiuolo rivoluzionario che ricorrono nel libro, non sono lontani dal bilancio che il secolo scorso (fra due guerre mondiali e due olocausti) ci ha lasciato in eredità.

 

Eppure, fra le righe di tutto questo, emerge la misteriosa presenza di quella Madonna Sistina di Raffaello che l’intellettuale sconfuso e debole agita sopra le turbolenze del tempo come immagine dell’Ideale e della Bellezza. O la santità del vecchio vescovo Tichon, che propone al diabolico Stavrogin che confessa i suoi terribili peccati di pedofilo un perdono che egli non riesce a comprendere. "Egli vi perdonerà anche se non sapete perdonarvi".

 

 

Il sole tramonta, la seconda frugale cenetta da mensa aziendale è consumata. Rientriamo nella fisiologia: scende la sera, si va a teatro. È la scena della festa del governatore, ma il caos domina. Il potere costituito è già minato, la città va rotolando verso il suo destino di distruzione, solo il nostro poeta alza ancora la bandiera della Bellezza.

 

Raffaello e Shakespeare sono il faro del mondo, grida Stepan Trimovic, ma il suo richiamo cade nel vuoto. Un capopopolo qualsiasi lo sostuisce, il ballo rovina nel caos, il governatore interdetto cerca impotente di opporsi ma tutto scivola nel baratro. Dalla loro alcova Stavrogin e la sua amante dominano le rovine. Poi tutto rotola, si incarta, si impiglia: è delitto, distruzione, morte (ma è forse l’atto meno riuscito, della potente costruzione del maestro tedesco). L’ultima parte è all’ora di una normale serata teatrale e tutti fingiamo di essere appena arrivati.

 

In platea c’è la complcità un po’ eroica di chi ce l’ha fatta, sono nate nuove amicizie, ci si saluta con confidenza. Ci si sente come ai tempi del teatro greco: una comunità raccolta per un giorno di fronte alla messa in scena di una storia che li riguarda. E questa storia profetica che descrive la tragedia del secolo scorso ormai è nostra, ce la siamo sudata. L’epilogo è tragico e vivo: fra macchinazioni, addii, assassinii e suicidi (l’ultimo sarà Stavrogin), c’è spazio anche per l’arrivo di un bimbo. Ma quando Varvara, leggendogli il Vangelo, accoglie l’ultimo respiro del poeta filosofo Stepan, che gli confessa finalmente di averla sempre amata, c’è un ultimo soffio di tenera e dolorosa consapevolezza che purifica tutto. Ci siamo immersi in un intero libro di Dostoevskij per tutta una giornata, siamo stati alle sue parole e al ritmo che Peter Stein ha impresso ad esse ed a noi.

 

Una grammatica potente e imponente, una meditazione sul male nostro e del nostro tempo. Ora una sola cosa resta da fare: riaprire "I demoni" e ritrovare le parole di Dostoevskij solo per noi, ritornati lettori. "La Russia guarirà, un giorno…"