Il sipario si apre e un diluvio di vocaboli sacri e profani raggiunge la sala. Le parole del testo cercano e inseguono altre parole, come in un canto. La nota dominante è l’incarnazione, l’adesso, l’ora e l’istante in cui la parola smette di essere verbo e si tramuta in corpo, carne, materia umana, essere. La donna madre di Salomè, la moglie di Erode, l’Erodiade di Testori è qui, da sola, sul palco a gridare il suo disperato bisogno d’amore e lo grida in faccia al pubblico e anche all’autore che, nella sua presenza-assenza, è il giudice sornione e implacabile di questa prova. La regina indossa un lungo abito nero, una vezzosa coroncina di fiori neri e un ampio mantello di velluto, nero anche quello. Tre gradini sono la reggia e il trono e, dalla verbalità materica dell’attrice si diffonde il sudore, il sapore e l’odore di ogni frase pronunciata. La “povera reina” esibisce l’orrido spettacolo della sua vita insensata e tutti i palpiti del suo cammino sono trattati come frammenti di una storia universale. Iaia Forte, con una fisicità impetuosa, rivive il dramma di quella Erodiade che si colloca “a metà fra un Dio astratto e quello incarnato” e che Giovanni Testori scrisse nel 1969 per la grande Valentina Cortese.



Il secondo tempo dello spettacolo è tutto della Erodiàs, scritta durante il ricovero dell’autore al San Raffaele di Milano e pubblicata, un anno dopo la sua morte, nel 1994. La scena cambia ma è ancora essenzialmente la stessa, spoglia e assoluta. In un piccolo teatrino di provincia di una qualche cittadina brianzola, tra i laghi e i monti della Lombardia, la testa di Giovanni Battista è testimone silenziosa del barbaro sacrificio che si riconsuma ora, come ogni sera. Una sedia e poche luci strampalate indicano il luogo dove Sandro Lombardi intona il canto funebre di Erodiàs. L’attore indossa una coroncina di diamanti e un paio di orecchini di perle che brillano su un elegante abito da sera. Si accompagna, a volte, con un piccolissimo pianoforte e con questo giocattolo inutile e rottamato, ci conduce ad assistere ad un inno d’amore pieno di passione e di ardente disperazione.



Lombardi non recita, è veramente e totalmente la sguaiata regina testoriana che, tra la dolce Brianza e l’infuocato Oriente, ci costringe ad accogliere, quasi a subire, una cascata di parole ed espressioni apocalittiche dove la lingua crea se stessa con mirabolanti invenzioni funamboliche, eccentriche ma non estranee e la tragedia universale si alterna e si impasta con momenti di irresistibile comicità popolare. E poi arrivano anche melodie delle canzoni della “mala” a rievocare mondi di umanità pietosa.

Ma anche per la seconda Erodiade e per l’attore in gioco, il dato ricorrente e inevitabile di questo straordinario e inusuale atto teatrale e linguistico, tra i più rari nell’attuale panorama italiano, è l’imperativo dell’incarnazione. Testori è un devoto del teatro e costringe i suoi attori alla stessa sua devozione: affrontare il teatro e viverlo come un luogo dove si incarna la parola, il Verbo, la verità, Cristo. «Il teatro non può uscire oggi dalla sua crisi se non ritornando alle sue origini religiose, nelle quali sole risiedono le sue ragioni e la sua verità. Senza il mistero, nulla può essere rappresentato ma solo riprodotto».



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 Quando sul palco e senza preavviso, un attore esprime qualcosa che può essere di aiuto a uno che è seduto lì di fronte a lui, fatto di carne e di ossa come lui, ma sconosciuto, questo atto di carità svela la radice del teatro e la sua unicità. E quando l’attore riesce ad offrire il dono della verità artistica, lo spettatore esce dal teatro cambiato, rigenerato e anche intimamente ferito, si sente meglio, si conosce meglio. È come un bambino. È capace di amare perché ha provato la commozione.

 

In un mondo di “orride plastiche” come quello che stiamo vivendo, il linguaggio universale del teatro allarga la percezione e l’esperienza interiore, arricchisce chi partecipa e, se riesce a farlo anche con un solo spettatore, significa che non è inutile, che e più di un semplice passatempo o di uno svago distratto. È una necessità. Le parole di queste Erodiadi provocano un senso di impalpabile benessere e riaccendono la curiosità verso ogni particella umana.

 

 

Le scene e gli attori delle due regine trasformano ogni pezzetto di realtà in frammenti d’arte che fanno compagnia al dubbio e hanno il retrogusto inquieto della provocazione. Ma, anche se indicano qualcosa che “sta prima”, non sono le opere e nemmeno gli artisti ad essere immortali. Eterno è solo questo improvviso faccia a faccia che può soccorrere uno spettatore nel buio del teatro e trascinarlo, gratis, alla contentezza della luce.

 

 

Lo spettacolo ormai non c’è più, ma resta ancora, strisciante tra le poltrone rosse della sala, una insolita sensazione di calma che l’arte turbolenta di Testori comunica, accompagnata da una pace che l’esperienza immediata non può trasmettere. La prova insuperabile di questi due grandi attori, che si muovono in dissonante equilibrio sul senso della vita, si è appena conclusa. Il sipario scorre lentamente. C’è uno strano brusio nella penombra. Il pubblico resiste ad alzarsi. Il tempo è immobile, fitto, eterno. «Ma davvero sublime è il calare del sipario e quello che si vede ancora nella bassa fessura: ecco, qui una mano si affretta a prendere un fiore, là un’altra afferra la spada abbandonata. Solo allora una terza, invisibile, fa il suo dovere e mi stringe alla gola» (Wislawa Szymborska). Ora il sipario è definitivamente chiuso. E la finzione lascia il posto alla vita.